di Paola Tamma *
In attesa che Londra emetta chiare garanzie, 3 milioni di europei residenti nel Regno Unito vivono in un clima di crescente intolleranza e paura. 162,000 sono italiani.
“Welcome to the UK” – l’onnipresente cartello al controllo immigrazione pare una battuta crudele. Dal 23 giugno scorso si susseguono le minacce del governo inglese nei confronti dei residenti stranieri. Amber Rudd, ministra dell’Interno, ha proposto che le imprese pubblichino un registro degli impiegati stranieri, subito paragonato alle stelle di David imposte agli ebrei dalle leggi razziali. In seguito alle critiche Rudd ha ritirato la proposta.
Liam Fox, ministro per il Commercio internazionale, ha chiamato i cittadini europei un “asso nella manica” nei negoziati con l’Ue, vera e propria merce di scambio per mantenere l’accesso al mercato unico.
Mercoledì scorso Theresa May ha dichiarato che limiterà la libertà di movimento. “Chi è già qui è al sicuro, una deportazione di massa sarebbe illegale oltre che impraticabile” rassicura Claire de Than, docente di legge alla City University. Ma aggiunge: “L’opzione più sicura rimane fare domanda di cittadinanza, o sposare un cittadino britannico”. Per ottenere il diritto definitivo di residenza bisogna documentare cinque anni di permanenza continua nel Regno Unito e pagare £ 1,875, + 42% rispetto al 2014. Molti non possono permettersi il costo o non soddisfano i requisiti minimi. May, ex ministra dell’Interno nel precedente governo Cameron, ha alzato a gennaio 2016 tutte le tasse relative all’immigrazione, forse in previsione di una pioggia di richieste in seguito al referendum.
Val S., un’infermiera romena di 43 anni nel Regno Unito da 10, si dice “forzata a richiedere la residenza, altrimenti non so cosa succederà alla mia famiglia”. Il suo caso dimostra la cecità del governo: oltre il 17% del personale ospedaliero è di origine straniera, fino a 26% per i medici. Senza Val e i suoi colleghi la sanità inglese crollerebbe.
Chi non rischia il rimpatrio subisce pressioni di altro tipo. Helene L., arrivata dalla Francia nel 2007, teme di perdere il lavoro: “I miei superiori vogliono ridefinirsi come ‘impresa al 100% British’. Non fanno altro che chiedermi quando tornerò a casa e quand’è l’ultima volta che sono andata in Francia. Per loro, spendere qualche giorno all’anno in Francia dimostra che ‘non sono abbastanza dedicata a questo paese’.”
Le famiglie miste sono sotto stress. Lo scozzese Andrew Walker ha subito un attacco verbale sul bus per aver parlato con la moglie in finlandese: “Non mi sento a casa, mia moglie è Finlandese ed il suo diritto di residenza è minacciato. Non riconosco più questo Paese o i suoi valori. Penso di lasciare il Regno Unito, non è più un paese per giovani”.
Molti, come l’austriaca Barbara M., evitano di parlare la propria lingua in pubblico: “Il mio compagno ed io siamo madrelingua tedeschi. Viviamo in un’area che ha votato a maggioranza per Brexit, ed evitiamo di parlare tedesco al supermercato. I vicini mi dicono che io sono una ‘brava persona’ perché pago le tasse, il problema sono ‘tutti gli altri immigrati’”.
Sono tutti segni di crescente intolleranza, sdoganata dalla retorica nazionalista del governo. La campagna pro-Brexit ha usato l’immigrazione come capro espiatorio in un Paese fortemente diviso e provato da continui tagli alla spesa pubblica. Ad oggi il governo continua a fomentare l’odio per lo straniero, mantenendo sulle spine milioni di cittadini europei che non hanno potuto votare al referendum pur subendone le conseguenze. “Molti se ne stanno già andando. Se il governo non vuole causare un esodo di lavoratori qualificati deve fornire garanzie chiare, e subito”, urge De Than.
Da terra delle opportunità, mèta di moltissimi giovani Europei in cerca di futuro, il Regno Unito si sta ripiegando su sé stesso in una mossa autolesionista oltre che retrograda. Chi arriva qui in cerca di futuro non si faccia ingannare dal cartello: you are no longer welcome.
Fonte: data.gov.uk, 2014
* studentessa di giornalismo investigativo presso la City University (Londra)