Blair witch project (1999) di Daniel Myrick and Eduardo Sánchez
Dopo dieci anni di remake, sequel, prequel, sovrabbondanza di sciocchezze horror nel mercato americano ed europeo, il sacro spirito dell’orrore risbuca nei boschi di Burkittsville nel Maryland. Tre studenti di cinema cercano di produrre un documentario sul mistero della strega di Blair che li aveva vissuto. Si addentrano nel bosco, sentono strani rumori, cominciano a girare in tondo senza riuscire a tornare alla macchina, si separano l’uno dall’altro, impazziscono, e finiscono dentro un casolare sinistro dove tutto si conclude. I filmati girati dai protagonisti vengono ritrovati (c’è la didascalia ad inizio film che spiega) e mostrati al pubblico così senza manipolazione. Il trucco c’è e si vede, ma grazie ad una pubblicità mirata nell’allora nascente web, The Blair… diventa caso d’attenzione mondiale. Come in Cannibal Holocaust di Deodato, per girare vengono usate due videocamere con pellicola di diverso formato, tenute in mano realmente da due dei tre protagonisti, diventando le uniche fonti visive della storia. Oggi sembra un banale espediente, ma all’epoca, complice l’ennesimo film low budget, fu una scelta formale di estremo impatto. La lezione dell’immediatezza del racconto, del realismo applicato all’horror funziona maledettamente e per impaurire bastano suoni, dettagli non sanguinolenti, urla, buio. E’ l’horror che chiude il secolo per riaprirne uno nuovo.