Eppure, nonostante le contraddizioni comportamentali, al popolino uno che non paga le tasse piace, è un eroe mica uno squallido evasore, beato lui che può… Katharine Viner, columnist del Guardian l’ha etichettato come il primo candidato dell’era della “politica post-verità”. Stephanie Cegleski, sua ex direttrice della comunicazione, spiega esuberanze e stile di Donald: “Come Ercole, Trump è un’opera della fiction”, scrive nella lettera resa pubblica in cui motiva le sue dimissioni.

Chi l’avrebbe mai detto, quel 16 giugno 2015, vedendo scendere Donald Trump sulle scale mobili che conducono all’atrio della Trump Tower di Manhattan per annunciare la sua candidatura alla corsa per la Casa Bianca – allora vista come l’ennesima stravaganza dell’eccentrico tycoon – che l’esibizionista imprenditore avrebbe scombussolato la campagna elettorale presidenziale? Che l’outsider della politica sarebbe diventato un mastino delle polemiche, che avrebbe incarnato il risentimento dei ceti illusi, delusi e traditi dalla globalizzazione accusata di tutti i mali, spaventati dall’immigrazione e dalle minacce terroriste islamiche (dimenticando il terrorismo “bianco”), incazzati per l’impoverimento? Semplice: Trump si è messo a parlare come la gente del bar, delle sale d’azzardo, dei discount, degli spalti, della cinghia sempre più stretta, degli indebitati fino al collo. Si è messo a urlare, perché chi urla si fa sempre sentire, quindi ascoltare. Le ha sparate grosse, come fanno cacciatori e pescatori, per vantare le loro presunte abilità. Ha promesso: di riportare l’America “grande come una volta”. Di fermare gli islamici. Di chiudere le frontiere alle merci e alle persone, lasciando credere che l’isolazionismo sia ancora possibile. Di dare voce agli americani “veri”, e salvarne l’identità (parola chiave).

Come Ercole, Trump è un’opera della fiction”, scrive la sua ex direttrice della comunicazione

Più che i contenuti delle (scarse) proposte – in fondo simili a quelle di decine di altri candidati del passato – è il modo in cui Trump ha rubato la scena del voto americano. E’ l’irruzione sul palcoscenico di un mattatore che si sente dialetticamente onnipotente, alla maniera di Lenny Bruce, celebre (e perseguitato dalle autorità) entertainer degli anni Cinquanta che aggrediva pubblico e società con un linguaggio rozzo, con frasi scorrette, il primo ad usare le parolacce: ma lo faceva per definire il proprio malessere e criticare il costume del tempo, non per diventare presidente. E’ soprattutto l’irruzione di un populismo dai connotati xenofobi e permeati di inquietante autoritarismo. Mai la democrazia americana si era trovata così in pericolo, dai tempi del maccartismo. Trump ha fracassato ogni tabù politico, ha fomentato violenza e teorie del complotto (come quando ha detto che non accetterà il risultato delle urne se sarà a lui sfavorevole, scatenando un pretestuoso dibattito su elezioni truccate…), ha strumentalizzato l’insulto, con il quale taglia ogni confronto. Ha, in un certo senso, liberato con il suo sfrenato sciovinismo, tanto odio e collera ipernazionalista. Qualcuno ha detto che è stato come sganciare bombe ritardate a frammentazione, i “cui effetti rischiano di farsi sentire a lungo” (Christophe Ayad, Le Monde).

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