Che pizza, questa legge. Erano almeno dieci anni che qualcuno provava a farla approvare. E proprio adesso che, per un miracolo bipartisan, parrebbe pronta per essere sfornata dal Senato (il 2 novembre scade il termine per la presentazione degli emendamenti in X commissione), ecco che c’è chi ne contesta l’impasto: indigeribile. Parola dell’Associazione pizzaiuoli napoletani (Apn) e dei colleghi siciliani riuniti nell’Upi (Unione pizzaioli italiani), due sigle che insieme raccolgono un migliaio di tesserati. Tutti pronti a listare a lutto i loro forni se passasse il disegno di legge 2280 (costo per le casse pubbliche: 5 milioni) presentato dal forzista Bartolomeo Amidei. Funereo pure lo slogan: “Oggi la pizza è morta”.
DDL INDIGESTO. Ma che cos’ha di tanto letale il testo di Forza Italia dedicato alla “Disciplina dell’attività dei pizzaioli professionisti”, di cui è relatrice Paola Pelino? (Qui il link per leggere il testo)
Almeno sulla carta i propositi paiono buoni: in Italia “le pizzerie, i ristoranti-pizzeria, le pizzerie d’asporto, al taglio e a domicilio sono circa 48mila” e visto che ogni locale, secondo Amidei, sforna in media 80 pizze al giorno, siamo di fronte a un business che lievita: 4 milioni di margherite, calzoni e napoletane divorate ogni 24 ore, ben oltre il miliardo in un anno. Ci vogliono almeno 100mila pizzaioli provetti per impastare, stendere e sfornare tanto ben di dio. E pizzaioli non ci si improvvisa.
LAVORATORI FANTASMA. Eccoci al punto. Fare la pizza è un’arte così particolare che da più di un anno i pizzaioli napoletani, con l’appoggio del ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina e l’impegno di un lobbista d’eccezione, l’ex ministro all’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, sono in corsa per ottenere il riconoscimento dell’Unesco come patrimonio (immateriale) dell’umanità. La candidatura ufficiale ha già raccolto in tutto il mondo 1 milione e 200 mila firme. Eppure, paradossalmente, in Italia il pizzaiolo non esiste: “Rappresenta un lavoratore fantasma privo di titoli giuridicamente efficaci dal punto di vista professionale” spiega il ddl 2280. Urge correre ai ripari. Ma come?
TUTTI ALL’ORDINE. Amidei un’idea l’ha sfornata: un diploma da pizzaiolo, rilasciato dopo un corso di almeno 120 ore (di cui 30 di lingua straniera e 20 di scienze dell’alimentazione) e un esame pratico-teorico davanti a una commissione di esperti. Dopodiché viene l’iscrizione obbligatoria (e a pagamento) a un elenco istituito presso le Camere di commercio e a un albo nazionale tenuto da un nascituro ordine dei pizzaioli professionisti, il che è – attenzione – “condizione necessaria per l’esercizio dell’attività professionale” e per poter “utilizzare marchi o insegne in cui ricorrano riferimenti alla professionalità medesima”. Traduzione? Addio Pizzeria Marechiaro o Bella Napoli, insomma, se a impastare acqua, farina e lievito non è un membro riconosciuto (e pagante) dell’ordine di cui sopra.
LA CASTA LIEVITA. Praticamente un’altra tassa. Pagata a chi? A organizzare i corsi (obbligatori), a condurre gli esami (obbligatori), a rilasciare diplomi (obbligatori) e a gestire l’elenco (obbligatorio) dei diplomati saranno “esclusivamente” le associazioni nazionali di pizzaioli riconosciute dal ministero dello Sviluppo economico. “Capiamoci: la legge regala a pochi soggetti il business incredibile della formazione e del riconoscimento. Cioè una straordinaria rendita di posizione” s’indigna Sergio Miccù, presidente dei pizzaioli napoletani, schieratissimi contro “una politica che fa le leggi col copia-e-incolla e finisce per creare la casta della pizza”.
LOBBY COPIA E INCOLLA. La relazione di Amidei, compresi dati e fatturato delle pizzerie, è infatti copiata pari pari da una proposta di legge del lontano 2007, quella dei Verdi Lion e Fundarò. Un altro buon pezzo del ddl (i corsi, gli esami, il diploma, il ruolo delle associazioni) è ispirato da altri testi presentati in passato, in primis quelli del Pd Giovanni Legnini, oggi vicepresidente del Csm ma all’epoca presidente della commissione Bilancio del Senato: primo tentativo nel 2006, col governo Prodi II e secondo tentativo nel 2008, col Berlusconi IV. Ma è con l’attuale legislatura che i copiatori seriali si moltiplicano: alla Camera ecco Sabrina Capozzolo, Pd, che propone la Patente europea del pizzaiolo (Pep) mentre al Senato, in nome della Pep, si sono attivati il Pdl con Pietro Iurlaro (oggi in Ala) e il Pd con Maria Spilabotte. E qui viene da ridere: sia il Pd che il Pdl hanno presentato un articolato praticamente identico, parola per parola. Confrontare per credere. Persino la relazione iniziale è un copia-e-incolla con trascurabilissime varianti stilistiche, e tutt’e due i testi, a loro volta, si rifanno al “fare la pizza è un’arte” dell’illustre antesignano Legnini.
PIZZA DESSERT. Qualche variazione in tanto copiare, comunque, c’è. Legnini punta, come associazione partner di corsi ed esami, sul Comitato italiano pizzaioli. Spilabotte e Iurlaro, invece, affidano il monopolio di esami e diplomi all’Amar, una piccola associazione pugliese capitanata da tale Enzo Prete, classe 1962, pizzaiolo di Brindisi, vincitore nel 2008 della “Coppa del Mondo della pizza dessert”. Prete ormai in Parlamento lo conoscono tutti: è peggio di un martello nel promuovere e sostenere la causa delle associazioni dei pizzaioli. Soprattutto la sua.
FORMAZIONE DI STATO. Quindi: retromarcia? Cancelliamo tutto? Ma no, un riconoscimento della professione servirebbe. “Lo chiedono soprattutto quelli che lavorano all’estero e subiscono la concorrenza dei “pizzaioli” stranieri” spiega Carmine Coviello, il consulente legislativo dell’Apn. Ma a chi tocca rilasciarlo? Alfonso Pecoraro Scanio non ha dubbi: «È il sistema dell’istruzione pubblica, cioè gli istituti alberghieri, che deve istituire corsi specifici per i pizzaioli e rilasciare attestati e diplomi riconosciuti anche oltre confine”. Ma, prima ancora dei diplomi, bisognerebbe sfornare la legge. E l’impasto, al momento, sta sullo stomaco a troppi.