Solo sette mesi fa, Mario Draghi minacciava il rischio di una nuova lost generation, manifestando la preoccupazione riguardo allo stato di salute delle istituzioni europee. Il governatore della Bce avvertiva che nuovi scenari economicamente letali per l’Europa sarebbero gravati, ancora una volta, sulle spalle dei giovani, che nonostante siano “la generazione più istruita di sempre, rischiano di pagare un prezzo troppo alto”.

Da allora, shock economici non ce ne sono stati. Eppure lo studio “Young Workers Index”, pubblicato da PwC, fotografa una situazione in cui i giovani di gran parte dei paesi Ocse stanno già pagando un alto prezzo in termini occupazionali, ma non solo.

L’Italia, con un tasso di Neet (Not engaged in Education, Employment or Training) pari al 34% nel 2015 (oggi l’Istat ha reso noto che il dato di ottobre è 37,5%)  si pone al 34° posto della classifica dei Paesi Ocse (35 Paesi), accompagnata alle ultime posizioni da Grecia, Spagna, Portogallo e Turchia. Le prime posizioni sono occupate da Svizzera, Germania e Austria, con un tasso medio dell’11%, seguite poi da Norvegia, Islanda e Danimarca.

Un’Europa spaccata in due velocità: al Nord i Paesi che sono riusciti a reagire alla crisi finanziaria del 2008, riportando i tassi di disoccupazione giovanile a livelli pre-crisi o addirittura migliorandoli; al Sud, invece, gli Stati che dal 2006 al 2015 non sono riusciti ad invertire la rotta.

Dal rapporto emerge che investire nel sistema duale, cioè (molto sinteticamente e forse troppo semplicisticamente) nel binomio formazione-lavoro, porterebbe, in caso di raggiungimento della tasso di Neet tedesco (10,1%), ad un incremento del Pil pari a mille miliardi di dollari per tutti paesi Ocse nel lungo periodo, che significherebbero per l’Italia un incremento pari all’8%, circa 156 miliardi, del 2-3% per Stati Uniti, Regno Unito e Francia e del 7-9% per Turchia, Spagna e Grecia. Il potenziale di crescita è inversamente proporzionale al tasso di Neet per ogni Stato: chi peggio sta più potrebbe guadagnare.

I paesi più virtuosi (i già citati Austria, Germania e Svizzera) sono infatti anche quelli che più investono sulla formazione professionale già in età scolastica. Solo qualche esempio: in Svizzera oltre il 70% dei giovani partecipa al Vet, il piano educativo che offre ai giovani apprendistati, certificazioni e stage professionali in oltre 200 tipi di occupazione, con l’adesione al programma da parte di circa un terzo delle imprese svizzere; in Germania il sistema duale ha inserito nel mondo del lavoro oltre il 50% degli studenti, raggiungendo circa 500.000 contratti di tirocinio professionale in un anno.

La riforma della scuola italiana, firmata Giannini, con l’introduzione, tra l’altro, dell’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro nel percorso curricolare negli ex trienni superiori (ora secondo biennio e ultimo anno) e con il nuovo apprendistato, sembra muoversi proprio in questa direzione, anche se mancano adeguati incentivi all’adesione delle imprese, che rimanendo su base volontaria rischia di non far realizzare tutte le potenzialità della riforma.

Le politiche di occupazione non riguardano i soli studenti delle scuole superiori, ma più in generale i giovani compresi tra i 15 e 24 anni. I primi sei paesi della classifica, infatti, prevedono tutti un piano di formazione permanente, anche per i disoccupati temporanei, per ridurre il rischio della disoccupazione di lungo termine, permettendo al disoccupato l’acquisizione di nuove competenze, spendibili sul mondo del lavoro. Questo approccio ha portato, per esempio, in Finlandia, alla riassunzione dell’83% dei disoccupati di medio termine che avessero aderito a programmi di formazione da disoccupati.

A caratterizzare il mercato del lavoro dei primi paesi della classica sono alcuni elementi comuni: 1) lo sviluppo di sistemi duali, che possono offrire infatti una migliore transizione dal mondo della formazione (sia scolastica-universitaria che professionale) al mondo del lavoro; 2) un diverso approccio da parte delle imprese; 3) la rimozione delle barriere che ostacolano il c.d. ascensore sociale.

Ed è interessante che dallo studio emerga il ruolo diretto delle imprese, necessario almeno al pari di quello delle politiche pubbliche: una revisione dei metodi di assunzione sulla base di competenze e qualifiche personali, con il superamento dell’informal recruitment, che discrimina i giovani provenienti da ambienti meno vantaggiosi, la ricerca delle risorse umane direttamente nelle università, la loro crescita all’interno dell’azienda, lo sviluppo di competenze immediatamente utilizzabili nel mondo del lavoro. Tutti punti su cui l’Italia è indietro e tutti punti in cui l’intervento pubblico deve necessariamente essere coordinato con un’inversione di rotta anche delle strategie imprenditoriali private.

Proprio per questo, lo studio si sposa perfettamente con alcuni punti chiave dell’Agenda 2030 che l’Onu ha approvato nel settembre 2015. All’obiettivo 8.6, infatti, l’Agenda impegna i Paesi che l’hanno sottoscritta a “ridurre sostanzialmente la percentuale di giovani disoccupati che non seguano un corso di studi o che non seguano corsi di formazione”.

Ma più in generale, l’Agenda 2030 fa della cooperazione tra istituzioni, imprese e società civile la ragion stessa della sua sottoscrizione perché, come emerge dal Rapporto ASviS 2016, “lo sviluppo sostenibile richiede una logica integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo: economica, sociale, ambientale e istituzionale ”.

E veniamo al punto: non si tratta solo di occupazione e di indicatori economici. Gli ostacoli allo sviluppo delle competenze non sono solo ostacoli alla crescita economica e alla realizzazione di un’economia salutare e sostenibile per le prossime generazioni che, prive della possibilità di sviluppare ed utilizzare proprie abilità, pur essendo le più istruite di sempre, potrebbero non essere in grado di affrontare le sfide del futuro. Sono, soprattutto, ostacoli ad uno sviluppo individuale e personale, che prescinde da quello economico; ostacoli che sono misura della sostenibilità dell’attuale crescita nei confronti delle generazioni future.

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