Gli ambientalisti chiamano la fascia prealpina della provincia di Brescia la “linea Maginot” degli uccelli migratori. E forse non a sproposito. Sì, perché a ridosso delle montagne sono posizionati 7500 capanni da caccia da dove, ogni anno da settembre a gennaio, il popolo delle doppiette scatena una tempesta di piombo contro i volatili. Il Bresciano con i suoi 20mila cacciatori è una delle regioni europee dove la pressione venatoria è più alta e, a detta di molti osservatori, dove la caccia va a braccetto con l’illegalità: dall’abbattimento di specie protette ai metodi utilizzati, spesso vietati, come i richiami elettroacustici. Non è un caso che ogni anno il Noa, il gruppo anti-bracconaggio del Corpo forestale dello Stato, organizzi la cosiddetta “Operazione pettirosso” tesa a colpire il bracconaggio che fa da padrone nelle valli bresciane. “Da una parte c’è una solida tradizione venatoria – spiegano gli agenti forestali – dall’altra un fiorente mercato illegale di pennuti protetti che finisce nei menù di molti ristoranti della zona”. Lo sanno bene al Centro di recupero per animali selvatici Valpredina. La struttura, gestita dal WWF, ogni anno durante la stagione venatoria si riempe di uccelli sparati: soprattutto rapaci anche di grandi dimensioni come falchi e, addirittura, aquile reali. “Siamo come un ospedale da campo in una zona di guerra” di Lorenzo Galeazzi
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