Sono mille giorni che papa Francesco, a partire dal suo primo pellegrinaggio a Lampedusa, insiste sul tema delle migrazioni. Bergoglio è stato il primo ed è in fondo l’unico leader mondiale ad aver capito sino in fondo il carattere epocale della migrazione di milioni di disperati – uomini e donne, vecchi e ragazzi – che lottano per la sopravvivenza cercando di raggiungere l’emisfero settentrionale: Europa e America del Nord.

Credere di affrontare il fenomeno con i muri o nella visione di un’operazione di polizia è illusorio. Ma anche pensare di muoversi soltanto in una mera ottica di buonismo sarebbe ingenuo. Anzi rischia di alimentare nell’opinione pubblica paura, ostilità e xenofobia.

Per questo è interessante notare come con il passare del tempo Francesco affini il suo messaggio. Il 2016 è da questo punto di vista un anno importante. Con il viaggio al campo dei rifugiati di Lesbo, compiuto con il patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo, il Papa ha messo in luce la necessità che le iniziative di aiuto siano impostate in chiave ecumenica come testimonianza unitaria di tutti i cristiani. Lo stesso concetto ha espresso durante l’incontro in Svezia con  la Federazione luterana mondiale. A Lesbo Francesco ha lanciato un altro messaggio: portandosi a casa nel viaggio di ritorno a Roma tre famiglie siriane musulmane, ha respinto silenziosamente la tesi degli “occidentalisti”, spesso atei devoti, che ritengono vada data la precedenza agli immigrati cristiani.

Proprio rientrando dalla Svezia, tuttavia, Francesco ha sviluppato un nuovo tema. Ribadito che è sbagliato sbarrare le frontiere, ha insistito sulla “prudenza dei governanti… (sul) calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere ma lo si deve integrare”. Questo significa fargli imparare la lingua, la cultura e anche “integrarlo nella cultura” del paese in cui si stabilisce.

Il pericolo della non integrazione, ha sottolineato Francesco, è la ghettizzazione dei nuovi arrivati. “Una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso”. Emerge qui un elemento caratteristico del pontefice argentino. Bergoglio ha una testa politica. Distingue tra la dimensione etico-religiosa e le competenze della politica. Bergoglio anzi esorta la Politica ad assumersi le sue responsabilità e a riappropriarsi del suo ruolo di guida. Da non dimenticare, in questo senso, è la sua condanna nell’enciclica verde Laudato si’ di una politica sottomessa passivamente alle ragioni della a tecnologia e agli interessi della finanza.

Nella globalizzazione contemporanea, idolatrica dell’interesse economico totalmente individuale – quella che Giovanni Paolo II in maniera pregnante chiamava l’“ideologia capitalistica radicale” – il papa argentino vede la supremazia negativa di un “governo del denaro”, anzi di un “terrorismo del denaro … (che governa) con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza”.

La risposta? L’agire della politica con la P maiuscola. “Una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano”, diceva Paolo VI citato da Francesco nel terzo incontro con i movimenti popolari avvenuto giorni fa in Vaticano. Proprio il carattere epocale delle migrazioni richiede dunque l’elaborazione di politiche che abbiano una visione geopolitica di ampio respiro. Il cardinale di Milano Angelo Scola ha evocato in proposito in Piano Marshall, finanziato dagli Stati Uniti, che nel dopoguerra risollevò i paesi europei occidentali piegati dalla guerra. La Chiesa, ha spiegato in una intervista alla Stampa, agisce da buon Samaritano, accogliendo e aiutando. Altro è il compito della politica. “Serve una sorta di piano Marshall almeno a livello europeo per affrontare il problema, sia nei Paesi di partenza come nei nostri”.

Scola è uno dei porporati italiani che con maggiore serietà e coerenza ha dedicato la sua attenzione al dialogo con l’Islam, all’integrazione delle culture, al “meticciato” fra le diverse culture che si intrecciano in Occidente nel fenomeno delle migrazioni. Il suo accenno al Piano Marshall indica la necessità di una politica lungimirante, che investa risorse, molte risorse nello crescita economica dei paesi del Terzo mondo in modo da assicurare ai loro abitanti nella terra natale quei livelli degni di vita, che inseguono spostandosi nella parte nord del pianeta. Il Piano Marshall non è solo simbolo di una politica di ampio respiro, ma anche di quel “sano egoismo” di uno Stato che comprende che la propria sicurezza e il proprio benessere non si fondano sull’insicurezza e sulla disperazione dei propri vicini.

Gli Stati Uniti aiutando l’Europa occidentale nel dopoguerra difesero il loro interesse (di bloccare la superpotenza sovietica), favorendo il benessere degli europei. E negli anni della guerra fredda gli aiuti dell’Occidente ai paesi in via di sviluppo” – finanziati nella stessa ottica – contribuirono all’impianto di imprese e alla nascita di infrastrutture in molti stati del Terzo mondo.
Eguali risorse e progetti mirati sono necessari oggi per un’integrazione degli immigrati all’interno dei paesi occidentali. Limitarsi a rinchiuderli in alloggi ghettizzati con qualche paghetta non risolve, anzi aggrava il problema.

Serve Politica insomma. E’ quello che chiede la Chiesa, ma i politici con una visione sembrano latitare.

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