Negli ultimi anni, in tutti e sei i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti, Kuwait, Oman e Qatar), l’uso dei social network e delle applicazioni di messaggistica istantanea ha conosciuto una rapida espansione. Solo in Arabia Saudita, alla fine dello scorso anno, c’erano 2,4 milioni di utenti di Twitter, il 40 per cento di tutti gli account registrati in Medio Oriente.
Moltissimi attivisti hanno dunque iniziato a usare i social media e i forum online per avviare campagne, costruire reti, diffondere le loro idee e criticare più o meno esplicitamente i loro governi. Decine di migliaia di sauditi hanno partecipato alle campagne online per sfidare il divieto di guidare imposto alle donne.
In Bahrein, i social media sono stati determinanti nella fase iniziale delle proteste del 2011 e ancora oggi sono usati per denunciare al mondo gli arresti arbitrari e le torture che proseguono a cinque anni di distanza. Lo stesso è accaduto in Oman nel 2012.
La risposta dei governi è stata spietata: un assalto sistematico alla libertà d’espressione che ha portato all’arresto di centinaia di dissidenti, attivisti politici, difensori dei diritti umani, giornalisti, blogger e avvocati. Molti sono stati torturati e processati. In alcuni casi, è stata ritirata loro la cittadinanza.
I governi dei sei Paesi hanno investito ingenti risorse economiche nell’acquisto di software per sorvegliare la rete e intercettare le attività degli utenti. Questi programmi consentono di avere accesso alle e-mail, ai messaggi di testo, alle password, ai file… Riescono persino a usare le microcamere e microfoni per prendere foto e conversazioni private senza che l’utente riesca ad accorgersene. Il gruppo di ricerca canadese Citizen Lab ha indagato a fondo sullo spionaggio online negli Emirati arabi uniti.
Sin dal 2011 sono state promulgate leggi che equiparano la libertà d’espressione online al terrorismo, alla faccia dell’articolo 32 della Carta araba dei diritti umani – ratificata da tutti i paesi del Golfo salvo che dall’Oman – che garantisce “il diritto all’informazione e alla libertà di opinione e di espressione, così come il diritto di cercare, ricevere e fornire informazioni e idee attraverso ogni mezzo”.
Per denunciare il tentativo di ridurre al silenzio con ogni mezzo il dissenso online e per far conoscere storie di coraggioso attivismo, Human Rights Watch ha trasformato i 140 caratteri di Twitter in 140 casi, collocati su una piattaforma interattiva. Molti di loro sono noti ai lettori e alle lettrici di questo blog: come Nabil Rajab (processo aggiornato alla prossima settimana) e Zainab al-Khawaja del Bahrein, Waleed Abu al-Khair e Mohammed Fahad al-Qahtani dell’Arabia Saudita e Ahmed Mansour e Mohammed al-Roken degli Emirati arabi uniti.
Una galleria di volti da non dimenticare.