Riuscirà quel che da sessant’anni chiamiamo Occidente a sopravvivere all’ometto cui il popolo sventatamente consegna la presidenza degli Stati Uniti? Difficile crederlo. Gli ottimisti più sfrenati possono confidare nei precedenti, da un secolo a questa parte “il tramonto dell’Occidente” è una profezia ricorrente nella storia occidentale. Sin dal libro Oswald Spengler che conobbe uno straordinario successo negli anni Venti (si chiamava appunto “Il tramonto dell’Occidente”) gli europei sono stati di continuo messi in allarme da vaticinii sinistri, che davano per esauriti i motivi per i quali era nato un Occidente, qualunque fosse il senso che i vari aruspici attribuivano a questo termine. Ma ogni volta quel che appariva il crepuscolo si è dimostrato solo un’eclisse, una crisi grave ma temporanea, un inciampo nell’inverarsi di sorti magnifiche e, fino ad oggi, progressive.
Ma, ecco il punto, è proprio l’idea tipicamente ‘occidentale’ di un procedere lineare, quell’avanzare irrevocabile chiamato “Progresso”, che oggi viene quantomeno messo in dubbio dal trionfo di un cialtrone che fa appello alla tribù e ai suoi istinti primari. Gli ottimisti meno sfrenati possono sperare nella rivincita dell’oligarchia, dell’establishment, del grande capitale, insomma di quel mondo che tifava apertamente per la Clinton nella consapevolezza di quali e quanti rischi avrebbe comportato per i propri interessi una presidenza Trump: possibile che questi potentati si rassegnino, che non stiano fin d’ora complottando per organizzare un impeachment e consegnare la Casa Bianca al vicepresidente, grigio ma assai meno pericoloso e imprevedibile? Ma anche se questa speranza probabilmente è fondata resterebbe da chiedersi che cosa rimanga oggi del sodalizio delle democrazie liberale, appunto l’Occidente, se per sopravvivere è costretto a sperare che le oligarchie sovvertano la volontà della maggioranza, il cosiddetto ‘popolo’.
Inoltre anche l’Europa non è in salute, dall’Ungheria alla Polonia pullula di tanti piccoli Trump, e di moderatismi vuoti, pronti a sacrificare alle convenienze anche in pochi ideali ancora declinati. Un’Europa smarrita, spesso rabbiosa, che non fatica a riconoscersi nell’aggressività di Trump contro lo straniero, nel suo razzismo light, in un’ostilità alle minoranze che ribalta e in prospettiva cancella il principio fondativo dello stato di diritto liberale, bene o male la forma politica dell’Occidente.
Nel concreto, il disprezzo di Trump per l’Unione europea non faticherà a saldarsi con l’anti-europeismo del Vecchio continente, già espresso dalla Brexit; e anzi lo incoraggerà, nel calcolo che un’Europa disunita e frammentata sia alla mercé degli interessi americani. Lo sconquasso dell’Unione faciliterebbe lo smantellamento della Nato, che Trump giudica superflua, e una nuova spartizione dell’Europa in zone d’influenza russa e americana. Gli europei finirebbero tra l’incudine e il martello, tra Putin e Trump.
Per tutto questo, è per l’Europa che suona la campana. L’elezione di Trump sembra uno di quei punti di svolta che determinano una nuova direzione della storia, e quella direzione potrebbe travolgere definitivamente l’idea di un’Europa unita. Per evitarlo l’europeismo dovrà combattere con le unghie e con i denti, con una determinazione che oggi si fatica a riconoscergli, e con qualsiasi alleato si presti. Combatta la giusta battaglia: per se stessa, per l’Occidente, e per chi, in America, oggi l’ha persa.