Una delle poche considerazioni profonde che abbia mai sentito profferire da Berlusconi riguarda il fatto che il pubblico va trattato come un ragazzino di 11 anni non troppo sveglio. Il pre-adolescente medio pretende gratificazione immediata, anela a confermare il magma di idee confuse che gli agitano la mente, esecra lo studio, trova ovvio copiare i compiti, ricerca un ruolo nel branco di simili e soprattutto attribuisce le asperità che non sa affrontare alla maestra. La coerenza è un concetto oscuro e il mondo si riduce alla stanza con i poster, alle chat e alle foto su Instagram, presto riposte in un baule senza fondo che ingloba effimeri ricordi e barlumi di logica.
Il regresso pre-adolescenziale in America, innescato dalla Grande Recessione, non ha lambito lo schermo radar degli strateghi elettorali e degli esperti su Cnn e altre piazze virtuali. Come nel quartier generale francese di fronte alle mappe della Maginot, sul Carro di Tespi mediatico glorificavano la mappa dei blue States, i feudi elettorali attribuiti alla Clinton per volontà divina glorificata dalle liturgie sondaggistiche.
Intanto nel ventre delle contee rurali e suburbane montava il divario tra le frustrazioni rabbiose dell’elettorato (alle prese con una riforma sanitaria demenziale, lavoro precario, violenza montante nelle città o scuole disastrate) e la retorica vacua che inserisce al top dell’agenda politica l’aumento delle tasse, i matrimoni gay, il porto d’armi o l’odio contro i poliziotti.
Ora l’inimmaginabile (per le fini menti politiche su entrambe le coste dell’Atlantico) è realtà. L’universo parallelo dove vivono quelli che non mettono piede su un autobus o che non frequentano gente col vocabolario limitato a 70 parole si è frantumato. Tuttavia, come avevo scritto nel post precedente, ciò non provocherà automaticamente il cataclisma evocato per esorcizzare il Mule che ha sbaragliato un avversario sommerso dalle dazioni dei gruppi di interesse, beneficiato da venticinque anni di costante esposizione mediatica e a capo di una gioiosa macchina organizzativa imponente e disciplinata.
La Presidenza non è un videogioco. Il Presidente degli Stati Uniti ha poteri di iniziativa politica, ma per implementare i suoi programmi deve piegarsi al Parlamento (che rimarrà saldamente repubblicano) e alle miriadi di influenze e sponde (interni e internazionali) che compongono una società complessa. Deve affidarsi a centinaia di persone che ogni giorno a livelli più o meno alti mandano avanti il paese lontano dalla retorica e dai riflettori. Un Presidente fonda il suo successo su due asset: la capacità di nominare gente straordinaria nelle posizioni chiave e la magia comunicativa che esercita sull’opinione pubblica, deputati e senatori. Reagan, un altro Presidente esecrato dai media, considerato nei salotti buoni un pericoloso pagliaccio, rozzo e ignorante, pronto a scatenare le guerra nucleare, piegò ai suoi voleri un Parlamento (in cui ebbe raramente la maggioranza) grazie al consenso che suscitava nell’America profonda.
L’incognita Trump è allo zenith sull’agenda economica interna: fedele all’impostazione sconclusionata, non ha mai presentato uno straccio di programma coerente. Talora ha evocato la diminuzione delle tasse, tal’altra l’imperativo di ridurre il debito pubblico. Per quel che si può evincere dai suoi discorsi apparentemente non ha idea di cosa sia la politica monetaria, che finora ha tenuto a galla un’economia asfittica. L’idea fissa è la deportazione di 11 milioni di immigrati illegali, operazione che farebbe impallidire dal punto di vista logistico (e di spesa) persino lo sbarco in Normandia. Questa incertezza ha affossato i mercati globali sin dalla notte e ha spinto alla ricerca di beni rifugio.
Sulla politica economica internazionale, a parte la barzelletta sul muro con il Messico – il maglio con cui ha fatto strame nella cristalleria del politically correct – il sogno che stimola le fantasie erotiche notturne è il ritorno al protezionismo. Con tutta probabilità Trump dovrà cambiare universo onirico. L’America non è più l’economia dominante sul pianeta. Il mondo sta diventando multipolare e quindi è l’economia americana che per non collassare ha bisogno di essere sempre più integrata con le altre. Per quanto il tassista del Michigan o il carpentiere del Texas fatichino a capirlo, al deficit di parte corrente corrisponde il credito all’America dai mercati internazionali. Se il flusso dei fondi esteri si inaridisce non riapre la fabbrica vicino casa. Chiude bottega anche l’attuale datore di lavoro.
Infine, se l’America di Trump si rifugerà nelle illusioni infantili, per l’Europa si imporrà finalmente l’esigenza contraria: l’ingresso nell’età matura che impone di bere il calice, anzi la damigiana amara, delle responsabilità globali rifiutate sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La rottamazione della Nato ventilata da Trump comporta un esercito europeo con bilancio comune e comando unico, non le feluche nazionali e le fanfare da operetta a cui siamo improvvidamente abituati.
Per quanto possa sembrare impossibile Trump ha un istinto essenzialmente pragmatico ben nascosto dalla folta peluria sullo stomaco con cui ha gestito gli affari. I toni esagitati servono ad ottenere uno scopo o a negoziare da posizioni di forza. Ma una volta raggiunto lo scopo musica e spartito cambiano, come testimonia il discorso della vittoria quasi affettuoso verso la Clinton.
Come mi capita di ricordare spesso, in campagna elettorale si devono fregare gli avversari. Dopo si devono fregare amici e sostenitori a cui sono state fatte promesse e distribuite cambiali politiche. La mancanza di scrupoli da palazzinaro newyorkese, paradossalmente, assume un aspetto rassicurante.