Il portale online che permette a privati di affittare una o più stanze del proprio appartamento lo ha comunicato per email ai propri iscritti. L'accettazione è obbligatoria, pena l'esclusione dalla community. Così il colosso della sharing economy è corso ai ripari dopo un anno di polemiche
La comunicazione è arrivata nella casella di posta elettronica di tutti gli utenti: un impegno, da sottoscrivere a partire da novembre, che vincola chi mette a disposizione la propria casa a non rifiutare ospiti sulla base del colore della pelle, del genere, dell’età e dell’orientamento sessuale. L’accettazione è obbligatoria, pena l’esclusione dalla community. È questo uno degli ultimi provvedimenti adottati da Airbnb, portale online che permette a privati di affittare una o più stanze del proprio appartamento, per prevenire casi di razzismo, omofobia e discriminazioni di genere. La mossa fa parte di una precisa strategia, adottata dopo la pioggia di accuse che nei mesi scorsi aveva gettato un’ombra sulla piattaforma statunitense.
Nella mail, spedita a fine ottobre, viene spiegato nel dettaglio in cosa consiste il regolamento. Si tratta di “un impegno a trattare qualsiasi persona, a prescindere dalla razza, la religione, l’origine nazionale, l’etnia, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale o l’età, con rispetto e senza pregiudizi. Ti mostreremo l’impegno quando accedi o apri il sito di Airbnb – si legge ancora – con l’app mobile o del tablet e ti chiederemo automaticamente di accettarlo”. Cosa succede se un utente non lo sottoscrive? “Se dovessi rifiutare l’impegno non potrai ospitare o prenotare viaggi attraverso la piattaforma e potrai cancellare il tuo account. Potrai ancora fare ricerche su Airbnb, ma non potrai prenotare degli alloggi o ospitare dei viaggiatori”. Una “politica di non discriminazione” basata su due pilastri: l’inclusione e il rispetto. Parole d’ordine che, secondo Airbnb, devono valere sia per chi ospita, sia per chi viene ospitato.
Così il colosso della sharing economy è corso ai ripari dopo un anno di polemiche. Il caso scoppia a dicembre del 2015, quando un’indagine sul campo, realizzata da tre ricercatori dell’Harvard business school, fa emergere le discriminazioni nel circuito dell’azienda nata nel 2007 a San Francisco. I tre hanno preso in esame 6400 richieste di affitto, in 5 grandi centri degli Stati Uniti. In alcune città, i profili con nomi riconducibili a origini afroamericane hanno ricevuto un numero maggiore di rifiuti, rispetto a profili del tutto identici ma con nomi anglosassoni. Dunque, secondo la ricerca, una persona di colore ha il 16% di probabilità in meno di prendere in affitto una stanza con Airbnb, rispetto a un viaggiatore con la pelle chiara. E ancora: nell’area di New York la stessa casa viene affittata il 12% in più se il proprietario non è afroamericano.
Percentuali che fanno venire a galla una questione tanto complicata quanto spiacevole e che mettono in luce, per la prima volta, un lato nascosto della piattaforma, diffusa in 192 paesi del mondo. Ma non basta, perché nei mesi successivi alla pubblicazione del testo cominciano a fioccare testimonianze di persone che denunciano episodi di razzismo e omofobia. Una bufera che spinge la società a sviluppare una serie di provvedimenti, per impedire ai suoi clienti di scegliere gli ospiti in base al genere o al colore della pelle, e allo stesso tempo per ridurre il danno di immagine. Il cambio di rotta viene messo nero su bianco in un report pubblicato a settembre e commissionato dalla stessa azienda a Laura W. Murphy, direttrice dell’Unione americana per le libertà civili. Un documento di 32 pagine in vengono elencate le linee guida da seguire. E di cui ora si vedono i primi effetti.