Rivincita o vendetta, a seconda dei punti di vista. Per alcuni osservatori esterni, il risultato che ha preso corpo nella notte (ora italiana) negli Stati Uniti e che ha visto Donald Trump non solo rimontare, ma vincere in modo deciso su Hillary Clinton, non dovrebbe essere poi così sorprendente. Apre a un quesito, la cui risposta non è così scontata come avevano immaginato quasi tutti i sostenitori della Clinton, i membri del suo staff e la maggior parte dei sondaggisti: chi si sente potenziale protagonista del sogno americano oggi?

Ci troviamo davanti a un Paese profondamente spaccato, in più parti e a più livelli. Molti elementi, tuttavia, conducono a una conclusione che pare ormai abbastanza pacifica: i partiti tradizionali e l’establishment composto dalla classe politica che ha caratterizzato la vita di un Paese (“un” Paese, non necessariamente e unicamente gli Stati Uniti d’America) non è più in grado di interpretare i bisogni e le istanze della maggioranza della popolazione, e nemmeno dei propri corpi elettorali di riferimento.

Tanto il Partito democratico quando quello repubblicano escono da queste elezioni con un serio bisogno di cominciare un processo di rifondazione che ricolleghi i fili tra rappresentanza e rappresentati. E gli elettori hanno inviato dei segnali forti a entrambe le formazioni prima durante le primarie, poi con i risultati della notte scorsa: Bernie Sanders, che nonostante la sotto-campagna a lui contraria da parte della Democratic National Committee (scandalo delle email di Debbie Wasserman Schultz, pubblicate su WikiLeaks) è riuscito a creare più di qualche problema a Hillary Clinton durante le primarie del Partito democratico, ha cominciato da indipendente e si è iscritto al partito in occasione della corsa delle primarie; Donald Trump, ora ufficialmente 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, ha partecipato alle primarie dei Repubblicani da indipendente e, fino agli ultimi giorni di campagna elettorale, è stato in larga parte rifiutato o non riconosciuto dalla quasi totalità dell’establishment del partito.

Il risultato maturato, dopo quella che con relativa tranquillità si potrebbe definire una delle più brutte campagne elettorali degli ultimi anni (e più), è poi ancora una volta una sconfitta per i sondaggisti: secondo i pollsters, Trump non ha mai avuto serie possibilità di vittoria sulla Clinton. Come insegnano i due casi più clamorosi che vengono direttamente dal Regno Unito, tuttavia, ci sono alcune persone che semplicemente non rientrano nei campioni dei sondaggi, o non dichiarano apertamente le proprie intenzioni di voto. Alle general elections del 2015 nel Regno Unito si parlò del fenomeno degli shy tories, elettori conservatori che esprimono pubblicamente il loro voto praticamente solo il giorno vero e proprio della tornata elettorale. Risultato? Si prevedeva un testa a testa tra David Cameron ed Ed Miliband, si è avuta quasi fin da subito la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento a favore dei Conservatori. L’altro caso di studio è la Brexit: in pochissimi avrebbero scommesso sulla vittoria del ‘Leave’, e quasi tutti i sondaggi sembravano esprimersi in favore della permanenza nell’Unione Europea. Non serve ricordare quale sia stato l’epilogo del referendum – di carattere consultivo, ricordiamolo per dovere di cronaca.

Considerazioni di scienza politica a parte, la vittoria di Trump si colloca perfettamente nel trend generale che vede partiti di stampo localista-nazionalista e conservatore emergere nelle democrazie liberali occidentali, come forte protesta nei confronti degli stessi sistemi che ne permettono (per fortuna) l’espressione. Attenzione però a definirli populismi: se il fenomeno assume proporzioni così ampie, c’è bisogno di porsi delle domande che ci allontanino dal liquidare velocemente l’ascesa dei vari Trump, Farage e Le Pen come la semplice scalata di alcuni demagoghi. Vi è dietro un malessere ben più radicato, un disagio sociale diffuso e persistente, che è quello di chi è rimasto escluso: dalla distribuzione della ricchezza, dal cerchio dei beneficiari diretti dei vantaggi della globalizzazione, per entrare invece a far parte pienamente delle statistiche sull’impoverimento della classe media (su questo tema, il problema negli Stati Uniti non risiede tanto nei tassi di disoccupazione, quanto nella diminuzione del salario medio) e sull’aumento della forbice delle disuguaglianze.

Qualcuno (Michael Moore) ha detto che una potenziale elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America sarebbe stata la massima espressione di un “f*** you” di proporzioni mastodontiche all’indirizzo dell’intero establishment di una nazione, nella forma del rigetto di un altro candidato che di quella élite politica e finanziaria è sempre stato visto come l’espressione più fulgida, almeno tra le possibili opzioni tra cui scegliere in queste elezioni. Trump potrà anche non essere il salvatore della classe media impoverita e il riunificatore di un Paese diviso da profonde fratture sociali, ma è certamente l’ultimo – e tra i più rilevanti – segnale che indica la necessità di pensare seriamente alla ricostruzione di un patto sociale tra rappresentanza ed elettorato che riporti la politica al livello delle persone.

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