“I lavori di ingegneria sono morti e si versa in una condizione di mera sopravvivenza. Ho ancora crediti per lavori per l’Aquila. Io mi accontento, combatto per lavorare. Io faccio la guerra per prendere lavoro”. E’ una confessione disarmante quella con cui l’ingegner Andrea Mazzetti (non indagato) rivela agli inquirenti fiorentini di aver versato 176mila euro al direttore generale dell’Ato Toscana Sud, Andrea Corti. Quest’ultimo è ai domiciliari da mercoledì 9 novembre con l’accusa di aver venduto, l’appalto da 3,5 miliardi per la gestione dei rifiuti delle province di Arezzo, Grosseto e Siena alla Sei Toscana, una società frutto di un raggruppamento d’imprese pubbliche e private riconducibile tra gli altri alla vecchia Banca Etruria e alla Castelnuovese, la cooperativa guidata per un decennio dall’ultimo presidente dell’istituto, Lorenzo Rosi.

Corti, di cui il Gip ha stigmatizzato una “fame di denaro per certi aspetti, imbarazzante”, ha agito in cambio di denaro ottenuto direttamente o tramite consulenze. Queste ultime erano spesso schermate da prestanome. A volte si trattava di involontari professionisti che sostengono di aver scoperto solo in seguito di aver messo il proprio nome su documenti di cui non sapevano nulla. Il caso di Mazzetti è diverso, assomiglia piuttosto agli studenti universitari di Corti, che hanno lavorato gratis per il professore poi lautamente ricompensato per le fatiche altrui. Mazzetti è infatti uno dei pochi professionisti ufficialmente coinvolti nei progetti dell’Ato che ha effettivamente svolto il lavoro a lui fatturato, ma ha accettato di tenere per sé solo il 20% dei compensi ricevuti girandone il resto a Corti tramite le società della di lui moglie alle quali venivano liquidate fatture per fantasiose prestazioni professionali. L’ingegnere, sintetizza l’ordinanza del Gip che ha disposto la misura cautelare nei confronti di Corti, era infatti stato chiamato dal direttore generale dell’ente di gestione e controllo del ciclo dei rifiuti della Toscana Sud “per svolgere l’importante lavoro di progettazione, che lo ha occupato, unitamente ai suoi due collaboratori, per circa un anno, con uno sforzo professionale significativo (è stata la parte principale e determinante della progettazione rimessa alla stazione appaltante ); ha tuttavia dovuto “accettare” le condizioni capestro impostegli dal Corti, per continuare a lavorare con la pubblica amministrazione, per sperare in nuovi successivi incarichi”. Condizioni che in pratica prevedevano che il consulente girasse al suo committente l’80% dei compensi ricevuti: 176mila euro su 203mila, incassando quindi, per un anno di lavoro, solo 26mila euro con cui doveva pagare anche i suoi collaboratori.

Per quale motivo? “I lavori di ingegneria sono morti e si versa in una condizione di mera sopravvivenza. Ho ancora crediti per lavori per l’Aquila e per la Procura della Repubblica dell’Aquila, mai pagati. Sono stato chiamato dall’Agenzia delle Entrate per rateizzare i miei debiti per l’Iva delle fatture non pagate – si difende interrogato dagli inquirenti -. Ormai reputo difficilissimo vendere il mio prodotto. E poi faccio presente che il Corti ci mette il timbro, che professionalmente e una cosa molto importante. E’ ovvio che le mie competenze si riducono in modo corrispondente ai pagamenti che io devo fare ai miei due ingegneri collaboratori, Spataro e Perilli”. E ancora: “Certo che, se dovessimo applicare il D.M. sulle tariffe, il lavoro di quel genere che è durato un anno e che è da rapportare all’importo dei lavori (7 milioni di euro e 3 milioni di euro) dovrebbe valere centinaia di migliaia di euro – conclude -, ma ripeto, io mi accontento, combatto per lavorare. Io faccio guerra per prendere lavoro. E poi devo aggiungere che io. in questa modo, ottengo anche il vantaggio di essere conosciuto e magari di essere chiamato nuovamente “.

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