Ieri a Mezzogiorno a New York sotto la pioggia: le facce stanche per strada, nessuno ha dormito. Tutti parlano di quel che è successo come per abituarsi all’idea, imparare a crederci, dare realtà a qualcosa che sembrava ancora ieri impossibile. Proprio la sera prima a cena, quando Trump aveva già praticamente vinto, un collega accademico esperto di elezioni ancora dichiarava: “Sarà una vittoria di stretta misura quella della Clinton, ma ce la farà”. E invece no. Non ce l’ha fatta. Alle undici della mattina abbiamo assistito attoniti al suo “concession speech”, poi al discorso pacato di Obama: è veramente finita. La notte delle elezioni l’abbiamo trascorsa attraversando un’emozione dopo l’altra: sorpresa, rabbia, paura, incertezza, sentimenti apocalittici, ansia, incredulità … come se dovessimo imparare ad adattarci a un mondo nuovo, come dopo l’11/9. E, ironia della sorte, mi faceva notare un’amica, ieri era il 9/11.
Cosa è cambiato ieri non è facile ancora dirlo. Certo per tutti coloro che credono nella democrazia costituzionale e liberale oggi è scomparsa la sicurezza che dietro a tante belle idee e parole ci fosse anche una super potenza mondiale pronta a difendere con la sua forza, e a volte, anzi troppo spesso ultimamente, con la sua ottusa e arrogante prepotenza, questi valori a qualsiasi prezzo, anche quello delle armi.
Il tramonto dell’America democratica coincide con la fine della pax americana che ha regnato sulle nostre vite per gli ultimi sessant’anni e l’inizio di un altro ordine mondiale che facciamo fatica a mettere a fuoco e che per il momento crea un’inquietudine globale.
Se ormai più di un quarto di secolo fa assistevamo attoniti alla fine precipitosa e non prevista del comunismo, oggi assistiamo altrettanto attoniti alla fine della democrazia liberale, che scompare come ideale universale a cui tutto il mondo tendeva, e diventa un’esperienza locale, storicamente situata, legata a un mondo di valori illuministi che sembra definitivamente superato.
Ciò che sta davanti a noi è una lunga stagione di populismo articolato in varie forme democratico/tirannico illiberali che si appoggiano su passioni patriottiche, sentimenti nostalgici di grandeur passata, tradizionalismo, maschilismo, xenofobia, religiosità e scetticismo nei confronti della verità e della scienza.
Perché di colpo i cittadini di grandi democrazie siano attratti da queste passioni è un fenomeno tutto da spiegare. Certamente le maggioranze silenziose che votano per Trump o per il Brexit hanno caratteristiche in comune: popolazioni autoctone, bianche, che si sentono abbandonate dai governanti perché non interessano in effetti più nessuno: non sono la classe operaia che può prendere coscienza del suo potere sul capitale, perché non hanno più nessun potere né sul capitale né sulle decisioni governative. Il potere che la democrazia dà ai suoi “perdenti” e quello di un misero voto ogni quattro/cinque anni, un potere talmente irrisorio che tanto vale usarlo per sbeffeggiare i governanti, come nel Medioevo si usava il giorno di Carnevale per farsi beffe mascherati dei potenti.
Che poi un esponente del capitalismo globalizzato e ultraliberale come Trump possa diventare il paladino delle masse popolari alle quali toglierà diritti e che priverà anche di quel barlume di protezione sociale alla quale Obama aveva provveduto è un altro mistero tutto da spiegare: come se l’identificazione con il leader carismatico avesse preso il posto della partecipazione politica confondendo i ruoli e la coscienza della propria posizione, unica modalità di partecipazione coerente alla vita politica.
Il gioco della politica a partire dal 9/11 è diventato un altro. Rimbocchiamoci le maniche ora per capirne le regole.