La compagnia esclude una nuova ondata di esuberi ed esternalizzazioni. Ma per la Cub ci sono a rischio 1500 posti di lavoro. Anche perchè i capitali di Ethiad non sono bastati ad invertire la rotta: l'ex monopolista continua a perdere denaro. Sempre più vicina la necessità di un intervento finanziario dei soci che lamentano il mancato rispetto dei patti. E l'esecutivo studia l'ennesima tornata di ammortizzatori sociali da concedere all'ex monopolista
Alitalia getta acqua sul fuoco sull’ipotesi di una nuova tornata di esuberi, ma non tutti i sindacati ci stanno. Per l’ad dell’ex compagnia di bandiera, Cramer Ball, le recenti indiscrezioni di stampa sui tagli in arrivo per flotta e dipendenti sono solo “speculazioni”. Anche perché “la prossima fase del piano industriale non è ancora stata messa a punto” e soprattutto non è arrivata in consiglio di amministrazione. Ma per il sindacato le cose stanno diversamente: “Il piano di salvataggio di Alitalia voluto dal governo è miseramente fallito – dichiara a ilfattoquotidiano.it il segretario della Cub Trasporti Antonio Amoroso – Alcune indiscrezioni parlano di 1.500 lavoratori a rischio di esuberi ed esternalizzazioni. Non sappiamo esattamente quanti dipendenti saranno espulsi dall’azienda e quante attività saranno trasferite a terzi perché tutto dipende da eventuali partner che si troveranno per gli asset di cui la nuova Alitalia pensa di poter fare a meno”. Secondo la sigla sindacale, l’ex compagnia di bandiera punta ad affidare esternamente le attività di scalo (dal carico-scarico bagagli al check), l’information technology, alcuni rami della manutenzione e infine parte della struttura di staff amministrativo. Ma non basta. Sempre secondo la Cub, l’azienda ha anche già avviato le trattative con il governo per ottenere altri ammortizzatori sociali: una nuova ondata di soldi pubblici arriverebbe così ad alleggerire la voce del costo del lavoro nel bilancio di Alitalia Sai, la compagnia nata dalle ceneri della Cai dei patrioti berlusconiani.
LA COMPAGNIA NON HA DECOLLATO – Il clima in azienda è insomma decisamente pesante. Anche perché, nel pieno della campagna referendaria, il governo non vuol sentir parlare di tagli e meno che mai di scioperi. Tuttavia per venire incontro all’azienda e ai soci arabi che nel 2014 hanno versato quasi 600 milioni nella compagnia, l’esecutivo starebbe valutando l’ipotesi di ammortizzatori in continuità come solidarietà e cassa integrazione. “La storia stessa di Alitalia ci insegna che questo tipo di ammortizzatori sono utilizzati come un bancomat per scaricare sui contribuenti il costo delle ristrutturazioni aziendali ed espellere il personale con più diritti e più oneroso, sostituendolo con precari e lavoratori a più basso costo. Non favoriscono il rilancio della compagnia, ma servono solo a posticipare il problema – prosegue Amoroso – La verità è che il rilancio di Alitalia con i nuovi investimenti e i nuovi aerei non è mai arrivato. La flotta è stata ridimensionata e il piano di sviluppo è inesistente. Il piano di salvataggio del governo è fallito. E l’impressione è che ormai da tempo si sia deciso di fare della compagnia solo un vettore di medio e corto raggio, un segmento di mercato in cui le low cost la fanno da padrone e i margini sono assai risicati. Il risultato di questa strategia è che i nuovi ammortizzatori saranno solo altri soldi pubblici sprecati che non serviranno a rilanciare la compagnia di bandiera in un’ottica di sviluppo del sistema turistico e di crescita degli stessi aeroporti nazionali. Primo fra tutti gli Aeroporti di Roma”. Insomma, siamo ben lontani dalle entusiastiche dichiarazioni del premier del giugno 2015, quando, in occasione della presentazione delle nuove divise della compagnia, Matteo Renzi annunciava: “Allacciate le cinture, l’Italia sta per decollare”.
I CONTI CHE NON TORNANO – I numeri, del resto, parlano chiaro. A distanza di due anni dall’arrivo degli arabi nel capitale di Alitalia Sai, la compagnia aerea brucia ancora soldi. Lo scorso luglio il presidente Luca Cordero di Montezemolo ha parlato di 500mila euro al giorno. Le perdite stanno erodendo il patrimonio della compagnia, i sindacati sono sul piede di guerra e un aumento di capitale, secondo il Sole 24 Ore, è dietro l’angolo. La società, controllata al 49% da Etihad e al 51% da i soci italiani di Midco, ha chiuso il 2015 con un rosso di 199 milioni di euro e il patrimonio del gruppo si è ridotto di 532 milioni a 122 milioni di euro, mentre a livello di capogruppo la perdita è stata di 408 milioni e il patrimonio è arrivato a quota 52 milioni. Il governo al momento non ha trovato niente di meglio che offrire alle compagnie aeree un contentino facendo saltare con la legge di Bilancio l’aumento sulla tassa d’imbarco degli aerei. Una magra consolazione per l’ex monopolista nazionale che ancora trasporta circa 25 milioni di passeggeri. Un vantaggio in più per Ryanair che è riuscita a strappare alla ex compagnia di bandiera il primato italiano di principale vettore del Paese con 29,5 milioni di passeggeri.
Intanto l’ipotesi di dover rimettere mano al portafoglio non piace ai soci arabi che a suo tempo si sono affidati a Montezemolo come loro garante e ambasciatore sul suolo italico, dove l’ex numero uno di Ferrari rappresenta importanti investitori del Golfo anche in Unicredit. Malcontento anche da parte degli italiani di Midco, cioè Poste, Intesa SanPaolo, Unicredit, Atlantia, Immsi, Pirelli e Gavio che sarebbero tutti obbligati a versare altro denaro nella compagnia per evitare che vengano infranti i vincoli comunitari sulla proprietà europea delle compagnie aeree e Alitalia perda i diritti di volo: per Bruxelles Ethiad, in quanto extracomunitario deve infatti restare socio di minoranza. Tanto più che anche la stessa Midco non naviga in buone acque: l’azienda ha chiuso il 2015 in rosso per 5,4 milioni, affossata da 5,25 milioni di oneri pagati a Poste per il prestito convertibile da 75 milioni concessole dalla società del Tesoro in occasione del salvataggio mediorientale. Per non parlare del fatto che le banche, alle prese con ben altre sofferenze, hanno fatto sapere che non hanno alcuna intenzione di sborsare altro denaro. In compenso, sempre secondo il Sole, stanno valutando la possibilità di trasformare in patrimonio parte dei debiti della compagnia (200 milioni su un totale 903 milioni).
In questo modo, Alitalia riuscirebbe nel breve a restare a galla senza ricapitalizzazione. Inoltre, secondo quanto riferisce Il Sole 24 Ore del 9 novembre scorso, Etihad potrebbe farsi carico di 216 milioni di debiti finanziari grazie alla sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi (obbligazioni rimborsabili al 2020 con diritti su utili futuri), definiti “quasi equity” perché, pur non trasformandosi in capitale, consentiranno di differire la ricapitalizzazione. Resta il fatto che Alitalia avrebbe comunque bisogno di un nuovo piano industriale taglia-costi: e il solito calvario è all’orizzonte. Con l’unica differenza che nel 2016 non ci saranno la vendita ad Etihad del programma Loyalty avvenuta nel 2015 o la cessione di quest’anno di alcuni slot allo scalo londinese di Heathrow a salvare i conti e che quindi è ragionevole ipotizzare che si possa sin d’ora dire addio all’obiettivo di pareggio fissato al 2017 e confermato da Montezemolo lo scorso luglio. Interpellata in merito da ilfattoquotidiano.it, tuttavia, Alitalia rimanda al piano industriale ancora in via di definizione.
LO SCONTRO A MEZZO STAMPA – Da qui lo scontro mediatico tra azienda e governo su quella che sarebbe dovuta diventare la compagnia più sexy del mondo. Con tanto di rimpallo delle responsabilità tra i soci arabi e l’esecutivo Renzi alle prese con la partita referendaria ormai alle ultime battute. Per il numero uno di Etihad, James Hogan, Renzi non ha mantenuto le promesse fatte al momento dell’accordo sul salvataggio siglato nel 2014. “Mi delude, come investitore, che alcune precondizioni non siano state rispettate”, ha dichiarato senza mezzi termini il manager al Corriere della Sera lo scorso 5 ottobre. E poi ha ricordato che, ai tempi del salvataggio, l’esecutivo si era impegnato a consentire l’uso dell’aeroporto di Linate per il lungo raggio e a varare un fondo di 20 milioni l’anno per la promozione turistica nelle città dei nuovi collegamenti: Città del Messico, Santiago del Cile, Pechino e Havana. Del resto la lamentela non è nuova e il governo era già stato avvisato dal presidente Montezemolo a luglio del 2016. Durante un’audizione alla commissione Trasporti della Camera l’ex numero uno della Ferrari aveva evidenziato provocatoriamente come nelle notti della trattativa sul salvataggio mediorientale di Alitalia, se al governo fosse stato chiesto in cambio di mettere a disposizione il lago di Garda, “sarebbe stato detto un sì perché si parla di oltre 13mila persone”, nonché di un’azienda italiana e fondamentale per il Paese come tutte le compagnie aeree nazionali. Dal canto suo Hogan ha anche lamentato l’atteggiamento ostile dei sindacati, che avevano promesso più o meno tre anni di pace, e lanciano invece uno sciopero “per qualcosa che vale come un caffè”. L’ultimo casus belli è stato quello dei biglietti gratis ai dipendenti per volare agli scali di partenza e raggiungere il posto di lavoro. Ma dietro la vicenda si cela un clima aziendale cupo, da caccia alle streghe.
La polemica rinfocolata a ridosso del referendum non è piaciuta al governo. Il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Graziano Del Rio ha replicato a stretto giro sulle colonne dello stesso Corsera che “il governo ha rispettato tutti i suoi impegni su Alitalia”. E che ha lavorato “in un’ottica di leale collaborazione nel rispetto dei reciproci ruoli e nella cornice delle norme europee”, ricordando tutti le agevolazioni concesse alla compagnia: a cominciare dal prolungamento di tre anni del fondo speciale per il Trasporto Aereo, fino a tutto il 2018, per l’assorbimento degli esuberi per arrivare alla decontribuzione sull’indennità di imbarco per i passeggeri da scali domestici e sulle indennità del personale di volo. Un elenco in cui manca, appunto, il decreto Lupi sulla liberalizzazione delle rotte sullo scalo di Linate per il quale, secondo il governo, l’Europa ha chiesto di notificare formalmente “un nuovo decreto, in mancanza del quale sarebbe stata avviata una procedura di infrazione”. L’esecutivo vede insomma il bicchiere mezzo pieno. E rifiuta ogni tipo di responsabilità in una dolorosa vicenda che mette a rischio oltre diecimila lavoratori. D’altro canto non vuole certo inimicarsi Ryanair, che ama definirsi ormai la “vera compagnia italiana” e dalla prossima estate lancerà altre 44 rotte nel nostro Paese. “Ryanair cresce, loro tagliano le tratte a breve raggio. E un vettore che perde 200 milioni con il petrolio a 40 dollari al barile non è certo uscito dalla crisi”, ha spiegato nelle scorse settimane Kenny Jacobs, il numero uno del marketing della compagnia irlandese, che punta a potenziare il traffico da e per l’Italia. L’obiettivo degli irlandesi è arrivare entro il 2017 a 35 milioni di passeggeri, oltre 5,5 milioni in più rispetto a quelli attualmente trasportati. Con grande interesse del governo che vede di buon occhio l’aumento dei flussi turistici.