Katia e Roberto sono gli unici due abitanti rimasti nel paese terremotato, insieme ai loro 4 figli e agli animali. Il loro modo di vivere li ha isolati dalla comunità: home schooling per i bambini, indipendenza e autosufficienza energetica e alimentare. Dopo il sisma hanno comunque offerto ospitalità agli sfollati, ricevendo quasi esclusivamente dei no. Ora non vogliono andarsene, nonostante le ordinanze: "Se ce ne andiamo noi, qui chi resta?"
Le indicazioni di Katia sono estremamente semplici. “Bisogna salire finché sale la strada. E alla fine di quella strada, dopo una chiesa mezza crollata, lì ci sono io”. Per raggiungere la casa di Katia, la cui famiglia è l’unica rimasta ad abitare nel paese di Accumoli, bisogna uscire al chilometro 141 della Salaria. Proprio in corrispondenza del bivio, recintate da una catena di jersey in calcestruzzo che le separa dalla statale, le macerie di un rudere in pietra. Un rudere che però doveva essere abitato, se la parete crollata, proprio quella che affaccia sulla Salaria, offre la vista di un bagno ancora integro, con le maioliche, il water, la doccia, e al di là del tramezzo rimasto in piedi la credenza di quella che parrebbe una cucina spartana.
I continui crolli causati dallo sciame sismico. Una situazione sempre più grave
“Già questo dà il senso di cos’è stata la scossa del 30 ottobre», spiega Gianni, studente di architettura dell’Università dell’Aquila e membro di un’associazione di musicisti che stanno organizzando eventi e concerti per raccogliere fondi per le popolazioni di Amatrice e Accumoli. “Quando venni a fine agosto – prosegue – questa casa non stava certo in queste condizioni”. Stesse considerazioni fatte, pochi minuti prima, nelle frazioni di Libertino e Le Mole, ai piedi della salita che porta al centro di Accumoli. Le foto scattate il 28 agosto, 4 giorni dopo il primo terremoto che ha colpito il Centro Italia, mostrano pareti lesionate, crepe in alcuni casi neppure troppo profonde. Ciò che si vede ora, invece, sono mura squarciate, interi angoli di case collassati e cumuli di calcinacci. Del bar che due mesi fa veniva utilizzato come cucina comune per offrire un piatto di amatriciana a giornalisti e volontari, e che le gente del posto considerava una delle poche strutture sicure di Libertino, un’intera metà è crollata, e ciò che resta sembra reggersi su un equilibrio assai precario.
Katia e la sua famiglia: “Gli unici a non andare via siamo noi”
Katia comunque aveva ragione. Difficile sbagliarsi, una volta usciti dalla Salaria. La strada s’inerpica con una serie infinita di curve dentro la boscaglia, di tanto in tanto bisogna rallentare e schivare le vacche che attraversano la strada o pascolano lungo la banchina. Ma tutti i bivi, tutti gli svincoli che potrebbero indurre in errore, sono bloccati dalle camionette dell’esercito. Di qui non si passa, indicano i militari con un semplice gesto della mano. E allora non resta che continuare a salire, lasciandosi alle spalle anche il cimitero di Accumoli, pure quello inaccessibile e mezzo distrutto, fino a raggiungere il cancello d’entrata della casa di Katia. “E pensare che qualche giorno fa i carabinieri volevano chiudere anche questa, di strada – sorride lei nell’accogliere gli ospiti, col thermos del caffè già in mano – Non volevano crederci che noi continuavamo a viverci davvero, quassù”.
Dalla metà di settembre, quando la tendopoli che era stata allestita nel campo sportivo è stata smantellata, tutta la popolazione di Accumoli ha abbandonato il paese. Qualcuno si è trasferito in altre case, o è stato ospitato da amici; la maggior parte, però, ha trovato rifugio negli hotel di Ascoli e di San Benedetto del Tronto. “Gli unici a non andarcene siamo stati noi – conferma orgogliosa Katia – E del resto, se scappiamo tutti, cosa resta di Accumoli?”.
Katia ha 39 anni. Insieme al marito Guido e al suocero Roberto gestisce un’azienda agricola, con decine di animali, e una macelleria. “Prima vendevamo la carne in paese. Da qualche anno – spiega Roberto – la portiamo invece a Roma, dove siamo in contatto con reti di commercio di prodotti biologici. Qui di lavoro non ce n’è, d’altronde. Anche prima del terremoto, di gente ne era rimasta poca, e di famiglie giovani ancor meno”. Katia mostra la struttura a blocchi che ospita la sua casa: non sembra aver subito alcun danno. “È il terreno che è buono – precisa – noi siamo proprio ai piedi della montagna, la terra qui è più stabile”. Ma oltre a indicare ciò che c’è – le stalle, le piante, le roulotte in cui si dorme quando la sera si avverte qualche scossa – Katia racconta soprattutto ciò che spera di aggiungere. “Il mio sogno è creare un agriturismo, con casette di legno dove le famiglie possano alloggiare. E poi cucina biologica, coi soli prodotti del nostro orto e dei nostri allevamenti, e camminate nel bosco e gite in bici e escursioni a cavallo”. Frena appena il suo entusiasmo prima di allargare le braccia e indirizzare lo sguardo dei suoi interlocutori verso la vetta innevata del Pizzo di Sevo: “Dopo tutto noi qui cosa abbiamo da offrire, se non il panorama e la pace?”.
“Sono la pecora nera di Accumoli. Ho offerto ospitalità a tutto il paese, ma quasi nessuno ha accettato”
Ed è appunto parlando delle casette di legno che sta per comprare, che Katia comincia a raccontare le storture di quella che lei ritiene “l’assurda gestione del dopo-terremoto ad Accumoli”. La mattina del 24 agosto, poche ore dopo la scossa, lei e suo marito scesero nel centro del paese avanzando una proposta. “Abbiamo detto a tutti i compaesani: se volete, noi acceleriamo l’acquisto delle casette, tra qualche giorno le installiamo in modo provvisorio nei terreni intorno a casa nostra e voi vi trasferite tutti da noi. Gratis, ovviamente”. La risposta? “No, grazie – ci hanno detto – Noi siamo terremotati e pretendiamo di essere assistiti dallo Stato“. Katia, precisa, non ha insistito: “Del resto ci fu detto che anche il sindaco era contrario ad una soluzione del genere. E poi, in fondo, resto la pecora nera di Accumoli: lo so perfettamente che io e la mia famiglia non siamo ben visti dalla comunità”.
Mentre rimprovera il gatto che continua a saltare sul tavolo del giardino, Katia elenca, ma forse sarebbe più giusto dire rivendica, le ragioni degli attriti tra lei e il resto della popolazione di Accumoli. “Il nostro stile di vita non piace. La nostra indipendenza, la nostra autosufficienza appaiono anomale. Noi siamo autonomi in tutto: mangiamo ciò che produciamo, abbiamo il pozzo per l’acqua, a breve installeremo anche i pannelli per l’energia elettrica. E questo è visto con sospetto. La mentalità, qui, è quella che è. Un periodo, ad esempio, ho portato i rasta: non vi dico i commenti dei paesani. Ma io da Accumoli non sono mai voluta andar via, e men che mai voglio farlo adesso”.
Katia e i suoi 4 bambini: “La scuola? La facciamo in casa”
Prima di continuare il resoconto di questi due mesi e mezzo di emergenza, Katia invita i suoi bambini a mostrare agli ospiti le stalle con gli animali. Quattro bambini: la più grande ha 12 anni, la più piccola ne ha compiuti 8 proprio in questi giorni. Prendono il loro compito con estrema serietà: con una perizia impensabile per dei bimbi, aprono le porte dei capannoni, scavalcano le recinzioni, indicano l’età delle bestie. E per ognuna un dettaglio da spiegare: la malattia di quella pecora, il peso di quel maiale, il carattere difficile di quella vacca che sta sempre accanto al suo vitellino. Ci sono 5 gradi, e il terreno su cui si cammina è ovviamente lurido: ma loro saltellano scalzi da un recinto all’altro, entrano nel pagliaio con delle infradito. Il più intraprendente è Roberto, 10 anni e lo stesso nome del nonno. Sale sul quad del padre e ne loda la potenza, giura di saper guidare il trattore, afferra un agnello per le zampe e se lo stringe intorno al collo. “Ecco, in passato era così che li portavano”, afferma, prima di correre verso la pozza dove, spiega, d’estate alleva i girini.
E la scuola? Dov’è che vanno a scuola, questi bambini, ora che ad Accumoli è tutto crollato? “Per noi non è un problema. Facciamo home schooling già da qualche anno”. Katia racconta i dettagli dell’istruzione parentale, che lei e suo marito hanno deciso di praticare dopo vari disguidi con presidi e maestri. “Provvediamo noi all’educazione dei nostri figli, che poi ogni estate sostengono un esame d’idoneità per l’anno scolastico successivo, così da dimostrare le competenze acquisite”. Le materia preferite? Tutti e quattro propendono per l’italiano: due di loro stanno scrivendo, dicono, “una storia che diventerà un libro”. Katia spiega i metodi d’insegnamento: “È tutto basato sulla vita pratica e sulla libertà di apprendere divertendosi. Biologia? La facciamo mentre produciamo, tutti insieme, il formaggio, e io illustro i principi della fermentazione. Geografia? Studiamo le cartine mentre pianifichiamo i viaggi per le vacanze, vediamo le regioni che attraversiamo e le rispettive caratteristiche. Mentre ci impegniamo nell’orienteering in mezzo al bosco, esaminiamo le foglie e le radici degli alberi: insomma ecologia. Matematica? Quando mi aiutano a fare il pane, si esercitano nel calcolare le quantità necessarie dei vari ingredienti, nello stabilire le giuste proporzioni”.
«Qui chiunque bussa viene accolto. La nostra autosufficienza genera sospetti»
Katia racconta tutto ciò con estrema euforia, ma si mostra consapevole di quanto insoliti possano apparire agli occhi dei profani queste pratiche. “Lo so che molti, in paese, ci guardano male anche per questo, ma non tengono conto della nostra generosità”. Da oltre 2 mesi, Katia e Guido ospitano 3 fratelli allevatori: gli unici ad aver accolto l’invito rifiutato dal resto del paese. Dormono in una casetta piazzata in giardino, mangiano ciò che Katia ogni giorno prepara. “E non solo noi – precisa uno dei tre – A volte, soprattutto quando piove, vengono qui a mangiare gli allevatori rimasti ad abitare le frazioni vicine: Fonte del Campo, Illica, Poggio d’Api. Domenica scorsa si è pensato di fare la pizza: eravamo in 25”. Tutto gratis?, viene spontaneo domandarsi. Ma Katia anticipa la domanda: “C’è chi porta qualche uovo, chi una bottiglia di vino. Ho già ricevuto 3 visite dai Nas e dalla Asl, che oltre a controllare la pulizia della cucina ci hanno anche rimproverato perché secondo loro siamo evasori fiscali, dal momento che non emettiamo fattura. Non volevano crederci che qui nessuno paga niente, che qui chiunque bussa viene accolto”. E quasi a certificare la veridicità delle sue affermazioni, annuncia categorica: “A proposito, oggi si mangia tutti insieme, non ammetto rifiuti”.
“Noi vogliamo restare. Ma anziché ricevere aiuto, veniamo trattati come se fossimo un peso”
Il pranzo è, manco a dirlo, abbondante: penne con formaggio speck e piselli, zuppa di fagioli e maionese fatta in casa. Si parla delle scosse avvertite in mattinata (“Una botta sarà stata almeno 3.7, secondo me”), si discute della validità di certe teorie che permetterebbero di prevedere i terremoti sulla base dell’allineamento dei pianeti. Poi, finito il pasto, è Roberto – il nonno – ad aprire il quaderno delle lamentazioni. “Io non capisco: perché chi decide di restare, oltre a ricevere appena 200 euro al mese per l’autonoma sistemazione, viene considerato come un peso, come un ostacolo? Non dovrebbero esserci riconoscenti per il fatto che non abbandoniamo il paese?”. Katia contesta soprattutto la condotta del sindaco di Accumoli, Stefano Petrucci, colpevole di “avere abbandonato” la sua terra e di essersi rifugiato in un hotel a San Benedetto. “Ma come? Proprio tu che sei il sindaco, scappi? Bell’esempio che dai. Io l’ho votato 2 volte: ma ora non ho più alcuna stima per lui”.
Dallo schermo del suo smartphone, Katia mostra un file pdf: “Questa è l’ingiunzione di sgombero che ci è arrivata dopo la scossa del 30 ottobre. È un’ordinanza che il sindaco ha caricato su un’App, alla quale noi dobbiamo collegarci per sapere se ci sono novità di qualsiasi tipo. Ma è mai possibile? Il sindaco di un Comune di nemmeno 700 abitanti, perlopiù anziani, che comunica in questo modo con la propria popolazione?”. Al telefono, dice Katia, Petrucci si nega, oppure risponde seccato. “Ci ha detto che noi quassù siamo fortunati, che lui deve pensare prima a chi ha perso la casa. E ci ha rinnovato l’invito a trasferirci negli hotel”. Ipotesi, questa, che tutti, a casa di Katia, reputano impraticabile: la necessità di accudire le bestie, le patate da raccogliere, i macchinari da sorvegliare. “Il nostro non è un lavoro d’ufficio. Noi lavoriamo tutto il giorno, senza orari stabiliti. Trasferirci equivarrebbe a mandare tutto in malora”.
“La stalla è inagibile: mi hanno detto di liberare i tori. Ho risposto: ‘Volete trasformare Accumoli in un rodeo?’”
Il caso che più ha fatto infuriare Roberto è stato quello della stalla dei tori. Ci tiene a mostrarci lo stabile, che si trova nella frazione di Le Mole. Al piano terra gli animali nei loro recinti, al primo piano la rimessa del fieno, al secondo piano la casa dove vivono lui e sua moglie. “La perizia dei vigili del fuoco ha stabilito che la struttura ha retto: l’unico rischio è dato dai massi della collina che sta quassù, che potrebbero franare. Mi hanno imposto di sgomberare tutto”. E i tori? “E infatti, è quello che ho domandato anche io. ‘E i tori?’. Come prima cosa mi hanno risposto di liberarli, nell’attesa di una sistemazione. Gli ho chiesto se hanno idea di cosa significhi liberare 30 tori adulti. Gli ho detto: ‘Avete forse intenzione di trasformare Accumoli in un rodeo?’. Robe da pazzi”. Il terremoto ha rotto le tubature dell’acqua, ma Roberto continua a riempire delle cisterne e a portarle lì ogni giorno. “Praticamente, sono un fuorilegge. Ma io i tori non li abbandono”.
Il sindaco Petrucci: “La famiglia di Katia? Faccio finta che non abiti in quella casa”
Ormai è sera, e il freddo che si avverte per le strade intorno ad Accumoli sembra essere amplificato dal silenzio. Raggiunto al telefono, il sindaco Petrucci non aspetta neppure di ascoltare la domanda. Appena sente nominare “la signora Katia e la sua famiglia”, interrompe: “Sì, conosco bene la loro situazione. Loro stanno lassù, in quella sorta di isola felice, e non si rendono conto della tragedia che vivono le centinaia di persone che hanno perso tutto. Accumoli ora non esiste, portare la gente negli hotel è una scelta obbligata”. E la famiglia di Katia, cosa dovrebbe fare? “Loro in quella casa non potrebbero entrarci, fin tanto che una nuova perizia non ne certifichi la piena abitabilità. Ma come dovrei comportarmi, di fronte al loro atteggiamento? Dovrei forse mandare i carabinieri a far sgomberare a forza la struttura? Preferisco far finta che loro non stiano lì, per ora”. Un punto, soprattutto, Petrucci ci tiene a chiarire: “Non è vero che ho abbandonato Accumoli. Dormo in hotel a San Benedetto, lo confermo, insieme ai miei concittadini. Ma sto in paese, a svolgere il mio ruolo, dalle 8 di mattina alle 8 di sera. Altro che fuga. Faccio il sindaco 24 ore su 24: e lo faccio, tra l’altro, per 651,99 euro d’indennità di carica”.