Diradatisi i fumi della sbornia mediatica post Trump, e in attesa di apprendere la direzione della politica economica Usa, torniamo a occuparci delle fandonie incistate nelle menti credule.

Questo post è dedicato alla Curva di Phillips (The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957 – Economica, 1958), cioè la presunta relazione causale inversa tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione. Nello stadio virtuale dove si contrappongono realtà e sogni, gli ultras della Curva di Phillips invocano nei cori la piena occupazione ottenuta per fiat monetario. Si tratta in pratica di una variante della celebre moneta filosofale osannata nelle cerimonie dei santoni da blogghe, atta a fornire alla politica economica, su un piatto di platino (tempestato di diamanti) la chiave del Campo dei Miracoli.

Già nell’articolo originale del Prof. Phillips era evidente che i dati su cui la curva era costruita non definivano una relazione inoppugnabile, anzi puntavano persino in direzione opposta. Ma non esiste realtà che possa scalfire le granitiche convinzioni dei gonzi, né le allucinazioni ideologiche si lasciano scoraggiare da banali fatti concreti.

Pertanto la Curva dei (desideri di) Phillps negli anni è assurta a dogma dell’Immacolata occupazione fornendo il carburante per fulminanti carriere accademiche a schiere di mezze tacche. Legioni di aspiranti ingegneri sociali, dediti a formulare politiche economiche manipolando modelli econometrici made in Topolinia, hanno usato la Curva di Phillips come architrave per farneticanti previsioni approvate col sigillo di centri studi (si fa per dire) ministeriali.

Per imbastire una fandonia tuttavia è giocoforza individuare un elemento veritiero, meglio se osservabile con facilità. Ad esempio i teorici (si fa sempre per dire) delle scie chimiche partono da un fenomeno banale, la condensa di vapore acqueo nella scia degli aerei e ricamano la panzana che siano massicce irrorazioni di sostanze nocive con cui un potere occulto (ovviamente neoliberista) obnubila le menti delle ignare popolazioni.

Nel caso della curva di Phillips l’analogo della condensa di vapore è un fatto abbastanza ovvio e altrettanto noto: in alcuni casi effettivamente un basso tasso di disoccupazione conduce ad un aumento dell’inflazione perché quando c’è scarsità di un bene, di un servizio o di un fattore di produzione, il prezzo tende ad aumentare.

Quindi per attrarre i lavoratori, in condizioni di pieno impiego, le imprese saranno disposte ad aumentare i salari e quindi in qualche misura ne risentiranno anche i prezzi. In altri termini, il prezzo della forza lavoro cresce in risposta a condizioni di scarsità relativa rispetto al prezzo di altri fattori (ad esempio energia o costo del capitale). Ma l’idea di raggiungere la piena occupazione attraverso una spinta inflattiva è un derivato tossico il cui sottostante è l’eterna confusione tra causa ed effetto.

Se si esaminano i dati, il legame tra inflazione e disoccupazione esiste per brevi periodi e per pochissimi paesi. In pratica, una rara eccezione e non una regola. Eppure non occorre certo una laurea in economia per verificare la portata della fandonia. Una rapida scorsa, per quanto distratta, ai giornali conferma che, ad esempio, negli Stati Uniti l’inflazione è vicina ai minimi da quasi 80 anni e il mercato del lavoro ha raggiunto la piena occupazione. Lo stesso dicasi della Germania, dove la disoccupazione è stata riassorbita durante un periodo addirittura di deflazione. Il Giappone che combatte la deflazione da oltre venti anni ha mantenuto un tasso di disoccupazione tra i più bassi del pianeta.

All’estremo opposto troviamo il Venezuela in preda all’iperinflazione dove invece della piena occupazione propagandata dagli ultras della Curva, la popolazione è alla fame. E in tanti casi meno eclatanti di inflazioni a tre cifre come nella Turchia degli anni ’80 e ’90 o nella Jugoslavia pre-guerra civile o di Israele negli anni ’80 non si ricordano boom economici. Volendo trascurare casi estremi, basta guardare all’odierna situazione in Brasile dove all’inflazione a due cifre corrisponde una disoccupazione ai massimi da un ventennio.

Nonostante il ridicolo accumulato nei decenni, la Curva di Phillips rimane uno dei muli di battaglia dello pseudo-marxismo light chiamato teoria keynesiana (anche se Keynes in questo caso non c’entra), i cui sciamani invocano l’intervento statale e la finanza pubblica allegra per stimolare la crescita. E quindi si ostinano a tentare l’arrampicata di sesto grado superiore su specchi concavi (come fa in l’ex Presidente della Fed Ben Bernanke) per riverniciare il ferrovecchio ideologico.

Per finire, l’inflazione può essere provocata da molteplici cause, ad esempio da uno shock di offerta che spinge in alto il prezzo delle materie prime, oppure da organizzazioni sindacali coese e determinate che riescono a negoziare salari reali più alti anche se la produttività del lavoro è stabile o in caduta. In questi casi l’occupazione certo non ne beneficia. Infatti negli anni ’70 predominanva il dibattito sulla stagflazione, cioè di stagnazione (e quindi alta disoccupazione) in contemporanea ad un’alta inflazione.

Insomma non esiste evidenza alcuna per ipotizzare che una banca centrale, attraverso una politica monetaria espansiva, possa creare posti di lavoro dal nulla. Invece è proprio questa assurdità che, senza necessità di irrorazioni nocive nell’atmosfera, inebetisce i creduli.

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