“Sono venuti quelli delle trivelle…mi ha detto…diglielo che sono scesi”. Sala colloqui, carcere di Palmi, 22 giugno 2011. Il boss e il suo contabile sono uno davanti all’altro. Il primo è Pasquale Bertuca. Il secondo, soprannominato “u Rappareddu”, è suo nipote Vincenzo Sottilaro che, oltre curare la gestione dei fondi della cassa comune, assieme alla madre Felicia Bertuca dispensa gli ordini del capocosca di Villa San Giovanni rinchiuso nella casa circondariale della Piana di Gioia Tauro.
Tra gli interessi del boss ci sono anche le trivelle che servivano per le opere propedeutiche alla realizzazione del ponte sullo Stretto. L’anno prima, misteriosamente, sono state incendiate quelle di una ditta siciliana che aveva il compito di effettuare i sondaggi geologici nell’area di contrada Pezzo dove doveva essere interrato uno dei piloni del ponte. Una strana intimidazione per la quale il titolare dell’impresa aveva riferito di non aver ricevuto alcuna minaccia o avvertimento nei giorni precedenti.
Trascorrono i mesi ma il pallino della ‘ndrangheta è sempre quello: il ponte. Tra i 26 fermati questa mattina all’alba nell’operazione “Sansone”, contro la cosca Condello di Archi e i clan di Villa San Giovanni, c’è pure l’imprenditore Pasquale Calabrese, detto “u Raia” che, “oltre ad essere impegnato nei lavori di ammodernamento dell’autostrada A3, – scrivono i pm della Dda di Reggio Calabria – svolge anche quelli connessi alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina”.
Per il procuratore Federico Cafiero De Raho e per il sostituto della Direzione distrettuale antimafia Giuseppe Lombardo, infatti, è proprio Calabrese che si occupa “dell’allestimento dei luoghi individuati per i sondaggi (a ciò servono le trivelle), propedeutici alle realizzazioni dell’A3 e del Ponte”.
“Le evidenze investigative raccolte – scrivono i pm nel provvedimento di fermo – hanno dimostrato che l’assetto imprenditoriale riconducibile al Calabrese costituisce lo strumento per favorire lo svolgimento delle attività delinquenziali a lui demandate dalla cosca di riferimento. È stato altresì accertato che trattasi di impresa riferibile sia all’imprenditore Calabrese Pasquale che al socio occulto Calabrese Domenico (anche lui arrestato, ndr) e che i predetti soggetti, oltre a devolvere sistematicamente una parte degli utili di impresa derivante dai lavori aggiudicati alla cosca Bertuca, a loro volta trattengono delle somme di denaro provento di estorsione in pregiudizio degli altri imprenditori locali e le reimpiegano nell’attività di impresa”.
L’operazione “Sansone” è uno dei filoni dell’inchiesta “Meta” che, nel 2010, aveva svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta di Archi e gli imprenditori asserviti ai boss. A distanza di sei anni, i carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo hanno eseguito un provvedimento di fermo per 23 persone in carcere e 3 agli arresti domiciliari. Gli indagati, complessivamente, sono oltre 40 e tra questi c’è anche un esponente delle forze dell’ordine che avrebbe aiutato uno degli arrestati “ad eludere le investigazioni ed a sottrarsi alle ricerche” dei carabinieri.
Ma non ci sono solo i Condello. Nel mirino della Dda sono finite le cosche Zito-Bertuca, Buda-Imerti e Garonfolo. Gli investigatori, infatti, hanno girato le manette ai polsi di Andrea Vazzana (uomo di fiducia del boss Pasquale Condello detto “il Supremo”) ma anche dei vertici dei clan di Villa San Giovanni come Alfio Liotta, Vincenzo Bertuca e Domenico Zito.
Boss, luogotenenti, raccoglitori di pizzo e uomini di collegamento tra i latitanti, i detenuti e la cosca. Ai 26 arrestati, la Direzione distrettuale antimafia contesta reati che vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso all’estorsione, passando per la detenzione di armi, il favoreggiamento di latitanti e procurata inosservanza della pena.
Tra i fermati, infatti, ci sono anche i fiancheggiatori del boss Domenico Condello detto “Micu u pacciu”, arrestato a Salice nella periferia nord di Reggio nell’ottobre 2012 dopo oltre vent’anni di latitanza. Dai lavori per la realizzazione del “Lido del finanziere” sulla costa Viola a quelli per il complesso edilizio “La Panoramica”. Tutti gli imprenditori dovevano pagare la mazzetta alla ‘ndrangheta. Anche la società messinese Mts (la cooperativa appaltatrice dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani del Comune di Villa San Giovanni) e le ditte che si occupavano della manutenzione straordinaria della sede della Direzione Marittima Calabria-Lucania e della Capitaneria di Porto.
E se una decina di anni fa, il boss Pasquale Bertuca era solito far comparire in ogni cantiere di opere pubbliche e private un cartellone dove con la vernice c’era disegnata una grande “mano nera”, quale “avvertimento di tipo mafioso”, adesso inviava dal carcere i suoi emissari per convincere gli imprenditori a “fare il regalino allo zio”. “Devo pagare l’avvocato” faceva sapere il boss attraverso i familiari che si recavano ai colloqui nel carcere di Palmi. Chi non versava è stato “ripagato” con un ordigno che solo fortunatamente non è esploso.
Per chi si opponeva ai desiderata della cosca, la ricetta è sempre quella di Felicia Bertuca che al figlio Francesco Sottilaro spiega cosa le ha riferito l’altro figlio detenuto su come comportarsi con un imprenditore che non voleva pagare: “… ma che li picchi, che li mandi all’ospedale gli devi dire che la facciano in culo …gli devi dire di seguire l’istinto”. L’inchiesta “Sansone” ha aperto uno squarcio sulle tensioni interne alla ‘ndrangheta dopo la cattura del latitante Domenico Condello. Ma ha dimostrato anche la capacita del boss Pasquale Bertuca e “della cosca in generale di infiltrarsi nell’amministrazione comunale di Villa San Giovanni”.
A proposito, nel provvedimento di fermo, spunta un’intercettazione in cui la sorella del boss riferisce al fratello che Vincenzo Cristiano (arrestato) “ha ricevuto un pensiero per sé e per Bertuca Pasquale da parte di ‘un amico che gli avevi fatto un favore… tu’ per ‘un coso del comune… una licenza’”. Nell’inchiesta, inoltre, è stato intercettato il sindaco di Villa San Giovanni Antonio Messina, nei giorni scorsi condannato in primo grado (assieme all’ex primo cittadino Rocco La Valle e ad alcuni assessori) a un anno di carcere per falso e abuso d’ufficio per la costruzione di un lido.
Sospeso dal prefetto Di Bari, così come prevede la legge Severino, il nome del sindaco Antonio Messina era finito già nelle carte anche dell’inchiesta “Fata Morgana” perché in contatto con l’avvocato Paolo Romeo, l’ex parlamentare del Psdi già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e ritenuto la testa pensante della ‘ndrangheta reggina assieme all’avvocato Giorgio De Stefano.