Nel centro di Bologna ha trovato un suo spazio un allestimento che racconta la storia della tecnologia creata per permettere ai non vedenti di leggere, scrivere e percepire la realtà che li circonda. Si chiama Tolomeo, come lo scienziato ellenista, perché, secondo i suoi ideatori “mette al mondo un modo diverso di guardare il mondo”.

Alla fine di via Castiglione, dove una delle porte della città incrocia i viali di circonvallazione, al numero civico 71 si trova un palazzo dall’aspetto austero. Il rigore dell’architettura rispecchia l’autorevole severità degli istituti scolastici, dei luoghi dedicati all’apprendimento e alla conoscenza. Il palazzo è infatti sede dell’Istituto dei ciechi Francesco Cavazza, che da più di un secolo si occupa di formare i non vedenti in attività operose, volte soprattutto alla tecnologia.

Proprio questo aspetto di menomazione dei sensi che acuisce capacità ulteriori è alla base della collezione di una sorta di gabinetto tecnologico, curato dall’architetto Fabio Fornasari e dalla storica dell’arte Lucilla Boschi. Il nome dell’allestimento è Museo Tolomeo. La parola chiave che i due curatori usano per descrivere questo luogo, dal forte contrasto fra luce e ombra, è wunderkammer.

Prototipo di un museo, forma evoluta della collezione privata, la camera delle meraviglie dell’Istituto Cavazza raccoglie oggetti disparati d’impronta tecnologica e gioca sulle analogie fra multisensorialità e percorso didattico. Un trovarobato interno all’Istituto con una densità concettuale capace di coinvolgere interamente lo spettatore. La visita guidata si snoda attraverso un percorso sulla tecnologia applicata alla soluzione dei problemi indotti dalla cecità. Dal libro in braille allo scanner di sintesi vocale Kurzweil si sviluppa la storia di un linguaggio che nasce da caratteri puntiformi che a posteriori si potrebbero dire un compromesso fra forme arcaiche d’alfabeto e le schede perforate dei primi computer.

Si susseguono strumenti che ricordano tastiere musicali tascabili o macchine da scrivere dadaiste. Avi o parenti prossimi degli apparecchi stenografici. Il tavolo al centro della sala raccoglie questi oggetti ingegnosi in un percorso a serpentina illuminato al centro da luci alogene tubolari. Una pista d’atterraggio sul mistero sempre aperto che unisce la necessità della comunicazione al continuo adeguamento della scienza. Usando questa chiave di lettura il Museo Tolomeo apre all’attualità del digitale, che sembra in qualche modo preconizzata dagli strumenti d’ausilio alla cecità. All’assenza della vista corrisponde l’attuale virtualizzazione degli spazi.

Ma l’aspetto complessivo della wunderkammer non può fermarsi a una sola dimensione: gli oggetti in esposizione devono, per diversità, simulare l’aspetto di un microcosmo contenuto nello spazio ridotto di una stanza. Ecco allora le fotografie storiche dell’istituzione bolognese per i ciechi, dove gli esercizi ginnici dell’era fascista nell’ambigua penombra potrebbero essere scambiati per coreografie maoiste. Oppure la proiezione delle immagini in movimento di Anne Bancroft, rigida istitutrice in Anna dei Miracoli, che in questo contesto acquista una statura ieratica.

Uno scheletro metallico quasi astratto è la rappresentazione tattile di una basilica. La riduzione dell’Inferno di Dante è contenuta in enormi volumi capaci di raccogliere un’intera enciclopedia. Nulla nel piccolo Museo Tolomeo è come appare. Anche perché in un mondo invisibile l’apparenza è dettaglio. La visita è su prenotazione.

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