E' un disco che non solo divide, ma non piace neanche a chi lo ha fatto. Fu un lavoro faticoso, con quella dannata suite che non veniva mai come volevano loro
Mi chiedete spesso se mi ferisca non piacere a tutti: al contrario, mi ferirebbe il piacere a tutti. Che è poi impossibile, nonché quasi sempre tremendo. Se piaci a tutti, non hai probabilmente niente da dire. Persino Dante o Petrarca dividono, figuratevi uno come me. Chiunque abbia cose da dire divide, e menomale: se Pasolini piacesse a tutti, non sarebbe Pasolini. E così Gaber, e così Montanelli. Diffidate da quelli che vogliono piacere a tutti: sono piccoli Farinetti sotto mentite spoglie.
Penso a tutto questo mentre ascolto in treno verso Rimini la suite di Atom Heart Mother, più o meno per la millesima volta. Anche i Pink Floyd non piacciono a tutti, e già questo dimostra che Renzi ce lo meritiamo. Come ci meritiamo ogni cosa brutta, perché siamo imperfetti e intimamente fallaci. L’umanità è sbagliata e irredimibile. Prendiamone atto e chiudiamola lì.
Atom Heart Mother non solo divide, ma non piace neanche a chi lo ha fatto. Dio (intendo Roger) lo ha demolito più volte, come pure tutti i divini Pink Floyd. Fu un disco faticoso, con quella dannata suite che non veniva mai come volevano loro, con l’orchestra che remava contro, con il giovane Alan Parsons con le mani sempre tra i capelli, con il povero Ron Geesin (conosciuto dal Mahatma Roger per la raggelante colonna sonora di The Body) che predicava nel deserto perché l’unico del quattro che sapeva leggere la musica e aveva un’impostazione classica era Rick Farfisa Wright. La stessa copertina, con la frisona Lulubelle III, sembrava una follia. E poi quel cazzo di titolo che non arrivava mai, ora western (Gilmour pensava a una cosa tipo colonna sonora epica de I magnifici sette) e ora The Amazing Pudding. Fu Nick Mason, leggendo il giornale del mattino prima di una intervista radiofonica, a rimanere colpito dalla storia di una “madre con un cuore atomico”.
È un disco che ha una suite finale indigesta, scritta (male) da Mason, e che qua e là sbanda. È dunque un disco disomogeneo, sì, però ispirato, con il Waters acustico e dolente di If, che pensa ancora alla follia e quindi anche all’amico già perduto Syd Barrett: “Se dovessi impazzire / Per favore non mettetemi i vostri fili nel cervello». C’è l’autobiografismo del fedifrago Wright in Summer 68 (brano sottovalutatissimo). C’è l’acerbo ma intenso Gilmour (una discreta chiavica come autore di testi) di Fat Old Sun.
Il fulcro era e resta quella suite. Troppo lunga, troppo pomposa, troppo barocca. Spezzettata, con digressioni ad minchiam e titoletti assurdi (tipo Funky Dung, ovvero Concime Funky). Ma è una suite – quasi involontariamente – magica, dannatamente epica e con quei continui crescendo, quelle parole che non sono parole. E quella sensazione di ipnosi e morte che affascinò Stanley Kubrick: il regista la voleva per Arancia meccanica, ma poi si scazzò e per decenni si mandò in culo con Waters (allegramente corrisposto dal Guru Roger, per esempio in un messaggio al contrario nascosto nel prodigioso Amused to death). Ci sono delle aperture pazzesche e se la ascolti con lo stereo giusto vieni sparato seduta stante in una dimensione parallela. Vi consiglio anche la versione mirabile ed esiziale contenuta nel (carissimo ma irrinunciabile) cofanetto The Early Years, senza orchestra e paurosamente affascinante.
Cosa voglio dirvi con tutto questo, mentre sono in treno e scrivo di getto dall’iPhone (perdonate i refusi)? Che i Pink Floyd erano magistrali anche quando non volevano. Che Gilmour andrebbe consegnato a Nardella per avere definito il disco “un mucchio di rifiuti”. E che Iddio, cioè Roger, quando ritiene tutto ciò una mezza schifezza, dimostra che persino l’Altissimo – nella sua lunatica e accecante magnificenza – può alfine sbagliare.
(Ma lo amo lo stesso, giacché Egli regna ed Essi con lui)