Prima vittima: il pelato, prodotto tipico proprio del Sud. Lo racconta il dossier 'Spolpati, la crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità', terzo rapporto della campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni ‘daSud’ e ‘Terra!’, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e presentato oggi alla Camera dei Deputati. Oltre alla denuncia anche le possibili soluzioni
Disorganizzazione del settore, aste on-line al ribasso, contratti senza alcun valore vincolante tra le rappresentanze delle organizzazioni di produttori e quelle degli industriali nel Sud Italia. Sono queste alcune delle cause che hanno trascinato il pomodoro, uno dei simboli del made in Italy, in una profonda crisi. Prima vittima: il pelato, prodotto tipico proprio del Sud. Lo racconta il dossier Spolpati, la crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità, terzo rapporto della campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni ‘daSud’ e ‘Terra!’, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e presentato oggi alla Camera dei Deputati. In un’indagine durata cinque mesi, concentrati per lo più nel distretto Sud, quello che presenta le maggiori criticità ma anche le maggiori potenzialità, confrontandosi con tutti gli attori della filiera e seguendola dal campo allo scaffale del supermercato, il team di ‘Terra!’ ha individuato i principali elementi di disfunzione, ma anche possibili soluzioni che renderebbero il sistema più virtuoso. “La prima cosa da evidenziare è la differenza il distretto Nord e il distretto Sud – spiega a ilfattoquotidiano.it Fabio Ciconte, direttore di ‘Terra!’ – dove le organizzazioni di produttori puntano a intercettare i fondi europei, senza alcun ruolo nella pianificazione agricola e dove non hanno saputo organizzarsi per fare da contraltare alla Grande distribuzione organizzata, lasciando a quest’ultima il potere di imporre prezzi al ribasso”.
I NUMERI E LA CRISI – Ogni anno nel nostro Paese vengono prodotti circa 5 milioni di tonnellate di pomodori su un’estensione di poco superiore ai 70mila ettari, principalmente nelle province di Foggia, Caserta e Potenza (distretto Sud) e Parma, Piacenza e Ferrara (distretto Nord). L’Italia è il terzo trasformatore mondiale di pomodoro, dietro a Stati Uniti e Cina e rappresenta circa il 50% della produzione europea. Il fatturato dell’industria del pomodoro si aggira sui 3 miliardi di euro. Eppure, nonostante questi numeri, il pomodoro italiano è in crisi: ogni anno diminuiscono i prezzi della materia prima e del prodotto trasformato. “I produttori – si spiega nel rapporto – lamentano scarsi introiti e riducono le superfici coltivate; gli industriali sostengono di vendere spesso a prezzi più bassi di quelli di produzione”.
IL PECCATO ORIGINALE – Tradizionalmente, il pomodoro era coltivato nella regione dell’agro-nocerino-sarnese. Verso la fine degli anni ‘80, l’erosione dei terreni in seguito a un’urbanizzazione selvaggia e una virosi che ha distrutto i raccolti, hanno spinto i produttori del napoletano a cercare nuovi appezzamenti. È così che il pomodoro ha cominciato a essere coltivato massicciamente nella Capitanata, in provincia di Foggia, oggi principale area di produzione del distretto Sud. Il pomodoro raccolto in Puglia viene trasportato alle industrie di trasformazione che, a parte alcune eccezioni, si trovano quasi tutte in Campania. “Dalla metà di luglio fino alla fine di settembre – scrivono gli autori del dossier – l’autostrada Napoli-Bari è un via vai di camion pieni che salgono verso la Campania e camion vuoti che scendono per caricare in Puglia”. È uno dei risultati dell’incapacità degli attori della filiera di trovare una sede al cosiddetto distretto Sud, formalmente creato nel 2014, mentre in realtà “lo scontro tra gli operatori del foggiano e quelli dell’agro-nocerino-sarnese ha per il momento portato allo stallo di quest’istituzione”.
LE ORGANIZZAZIONI DI CARTA – Non solo. Questa ‘distanza’ ha facilitato anche un altro fenomeno che riguarda le organizzazioni dei produttori. “Nella maggior parte dei casi – si legge nel rapporto – non sono controllate da reali produttori ma da ex commercianti che svolgono un ruolo di intermediazione tra la parte agricola e quella industriale”. Gran parte delle organizzazioni che trattano il pomodoro nel Sud Italia servono principalmente a intercettare i fondi europei dei cosiddetti ‘piani operativi’, mentre non hanno alcun ruolo nella pianificazione agricola (semina e raccolta), né nella logistica dei trasporti. La differenza con il Nord è nei numeri. Nel distretto Sud su 30mila ettari di terreno coltivabile, ci sono 84 impianti di trasformazione e 39 organizzazioni di produttori, mentre nel distretto che ha sede a Parma su 40mila ettari, ci sono 26 impianti e operano appena 14 organizzazioni. Proprio la mancanza di razionalità della filiera del Sud sta causando la cresi del pomodoro pelato “espulso da un mercato che richiede prodotti semplici e veloci da cucinare e da un distretto produttivo incapace di fare sistema e valorizzare le proprie eccellenze”.
IL RACCOLTO DELLA DISCORDIA – Nel settore del pomodoro, in cui i braccianti impiegati nella raccolta a mano (che rappresenta il 15% del totale) sono per la quasi totalità stranieri (cittadini dell’Africa sub-sahariana, rumeni o bulgari), il cosiddetto “caporalato” è l’unico mezzo di reclutamento della manodopera. Pagati a cottimo a seconda dei cassoni che riescono a riempire, questi lavoratori devono versare parte del loro guadagno ai capisquadra. “L’approvazione in via definitiva della legge contro il caporalato – scrivono gli autori – rappresenta un passo avanti nel superamento di questo sistema, ma è urgente mettere in piedi un meccanismo alternativo di incontro tra richiesta e offerta di manodopera nelle principali aree agricole di raccolta”. C’è da dire che la raccolta a mano diminuisce di anno in anno, perché pur pagata a cottimo e compiuta in condizioni di sfruttamento, risulta economicamente sconveniente rispetto a quella meccanica. Così oggi al Nord la raccolta è interamente meccanizzata, mentre al Sud è all’85 per cento.
IL CONTRATTO IMMAGINARIO E LE ASTE AL RIBASSO – Altro elemento disfunzionale della filiera è il contratto concluso ogni anno tra le rappresentanze delle organizzazioni di produttori e quelle degli industriali nel Sud Italia non ha alcun valore vincolante. È un cosiddetto ‘prezzo di massima’. In caso di abbondanza di materia prima, il prezzo d’acquisto cala vertiginosamente, mentre sale quando c’è carenza. “Questo comporta l’impossibilità – spiega Ciconte – di fare previsioni e di attuare una seria programmazione di filiera: la parte agricola e quella industriale tendono a perseguire strategie opposte”. Diverso il caso del distretto Nord. Qui le Op sono reali aggregazioni di produttori e le industrie firmano con esse un contratto che tutti rispettano. Altro nodo critico della filiera sono le aste on-line che vengono lanciate da alcuni attori della Grande distribuzione organizzata, basate sul meccanismo del doppio ribasso. L’acquirente della Gdo manda una e-mail agli industriali chiedendo loro di fare un’offerta per una certa partita di prodotti. Basandosi sull’offerta più bassa, il gruppo della Gdo convoca poi un’altra asta on-line, della durata di poche ore, in cui i partecipanti sono chiamati a ribassare ulteriormente il prezzo di vendita. Il risultato è che spesso gli industriali vendono praticamente sotto costo.
LE RACCOMANDAZIONI – Per far fronte a queste anomalie il rapporto propone una serie di azioni di legge: l’innalzamento del minimo fatturato per costituire una organizzazione di produttori e l’obbligatorietà di avere la sede principale nella regione di produzione, ma anche la certezza di un contratto vincolante, come avviene nel Nord Italia e l’abolizione delle aste on-line con il doppio ribasso. Infine “una legge sulla trasparenza fondata sull’etichetta narrante, perché solo rendendo trasparente la filiera – conclude il rapporto – si potrà ridare vita a un’agricoltura in affanno e a un made in Italy sempre più ripiegato su se stesso”.