Molti in Italia paragonano l’elezione di Trump all’ascesa (e alla permanenza) di Silvio Berlusconi negli ultimi venti anni di vita politica italiana. E presentano entrambe le cose come un vulnus della democrazia, o addirittura “l’apocalisse” (Michele Santoro). Naturalmente il discorso è funzionale al Sì al referendum costituzionale. Eppure vorrei far notare che, almeno nel caso di Berlusconi (per Trump non possiamo ancora dire niente, salvo che se vorrà dare seguito alle sue gravissime uscite propagandistiche troverà – si spera – enormi ostacoli) quel vulnus, se c’è stato, si è concretizzato in ben poco. Abbiamo avuto un generale scadimento del linguaggio politico, dei danni rilevanti alla cultura politica italiana, e all’immagine.
Berlusconi ha traccheggiato molto, ha badato tanto ai propri interessi, e soprattutto ha avuto un’opposizione che, per quanto blanda, ha svolto una sua funzione, anche grazie al ruolo delle piazze, dei sindacati e dell’opinione pubblica. L’era delle grandi intese ha invece permesso la legge Fornero, l’archiviazione dell’art. 18, il pessimo e fallimentare Jobs Act, una brutta riforma costituzionale (ancora da votare con il referendum).
Ora, tutti ripetono il mantra secondo cui l’Italia è una Repubblica parlamentare e non c’è alcuna norma che preveda che il premier debba essere “eletto“. Secondo l’art. 92 è il Presidente della Repubblica che conferisce l’incarico al premier, non le urne. E formalmente è così. Ma si sa che la dottrina ha giustamente sollevato l’eccezione secondo cui la modifica delle convenzioni costituzionali (che sono vere e proprie fonti) ha spostato parzialmente i termini della questione.
Zagrebelsky aveva parlato di “notevole riduzione” del ruolo autonomo del Presidente della Repubblica, Martines aveva scritto che era stato introdotto de facto un vincolo per il Presidente della Repubblica “nel senso che la nomina del Presidente del Consiglio dovrebbe cadere naturalmente sul leader dello schieramento politico-elettorale risultato vincitore delle elezioni”. Tutto ciò avrebbe reso più stretto, per il Presidente della Repubblica, lo spazio di manovra per il conferimento dell’incarico per la formazione del governo. E infatti tutte le volte che l’incarico è stato conferito a soggetti non usciti dalle urne, ciò è stato vissuto come una forzatura (Dini, D’Alema, Amato).
Si vede che nel frattempo siamo passati dalla Seconda alla Terza Repubblica, perché il Presidente (Napolitano) ha invece, e per 3 volte, in nome dell’emergenza, ignorato questo dato, normalizzando ciò che con la Seconda Repubblica era sembrato eccezionale (i casi di Dini e seguenti) e, non indicendo o bypassando le elezioni, ha conferito incarichi a Monti, Letta e Renzi, peraltro in paradossale contraddizione con lo spirito della riforma costituzionale in discussione, ovvero l’esigenza di sapere “la sera delle elezioni” chi è il premier (ma non era il Presidente della Repubblica a dare l”incarico? In fondo gli articoli 92, 93 e 94 della Costituzione “riformata” sono rimasti invariati nella sostanza, prevedendo ancora che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri”, art. 92, e modificando solo laddove per la fiducia si faceva riferimento alle Camere, parlandosi ora solo Camera dei deputati, art. 94).
Ecco, è in questo clima, quello della “nomina”, che si sono consumati i recenti attacchi alle garanzie del lavoro o alla centralità del Parlamento. Non si tratta di riabilitare Berlusconi, che è stato un pessimo politico e ha prodotto danni notevoli, e se ha nuociuto meno di quanto forse avrebbe voluto non è per sua virtù. Si tratta di discutere il modello di democrazia che abbiamo di fronte, e la rottura di quel circolo democratico che vive della scelta dei cittadini perché ciò li rende coautori (e corresponsabili) delle scelte politiche: chi ha votato Berlusconi è responsabile.
Le elezioni non sono certo il momento in cui si consuma tutta la democrazia, ma esse sono un modo per indicare qualcuno a cui tenere poi gli occhi addosso. Perché in fondo, se si eleggono dei rappresentanti che fanno sfracelli, la responsabilità è di questi ma anche di chi li ha votati, e occorre che entrambi se la assumano. Si chiama accountability, sostanzia il rapporto tra governanti e governati, e deve contemperare le esigenze di efficienza del governo con quelle di rappresentanza e partecipazione dei cittadini.