Mille giorni di governo Renzi: dall’immunità per i politici all’articolo 18. Dalle promesse del febbraio 2014 a oggi

Il referendum è alle porte e i sondaggi danno la sua popolarità in picchiata. Mai come oggi, a mille giorni dal suo esordio, l’era di Matteo Renzi sembra giunta al momento della verità. Ecco i temi forti del discorso di insediamento e lo stato dell'arte, mille giorni dopo

di Thomas Mackinson
18 Novembre 2016

L’articolo 18 “non era un problema”, poi l’ha abolito per il Jobs Act. “Aboliamo le province”, che risorgono come enti di secondo livello con tutti i costi annessi. “Primarie al posto delle preferenze”, non ne ha più parlato. Reintrodurre l’immunità era “un errore clamoroso, una barzelletta”: poi arrivò la riforma del Senato che la estende ai sindaci-consiglieri, ma nessuno ride più. L’antologia delle promesse disattese è solo all’inizio ma mai come oggi, a mille giorni dal suo esordio, l’era di Matteo Renzi sembra giunta al momento della verità. Il referendum è alle porte, con sondaggi poco promettenti, e ci sono dati che certificano l’erosione – in poco meno di tre anni – di un immenso patrimonio di fiducia: alla vigilia delle Europee del 2014 i sondaggi tributavano al leader-rottamatore venuto da Rignano un gradimento del 49%, oggi i più clementi ballano intorno al 30. Dopo mille giorni il vento del consenso non soffia per Renzi ma contro e potrebbe anche spostarlo di peso da Palazzo Chigi tra soli 16 giorni, quando gli italiani saranno chiamati a votare l’armageddon al quale egli stesso ha appeso il proprio destino politico, salvo rimangiarsi l’impegno a “non galleggiare con governicchi”, in caso di sconfitta il 4 dicembre. Opzione che segnerebbe un epilogo uguale alla storia, a partire dal suo inizio.

L’azzardo, l’eccesso di promesse irrealizzabili è il tratto distintivo dei mille giorni. Un impulso irrefrenabile che è personale, certo, ma è diventato anche il metodo per imporre il proprio ambizioso progetto politico, sprovvisto di mandato popolare, a una compagine inventata che ha numeri insufficienti per portare a termine grandi riforme senza scendere a compromessi. E proprio questa “palude”, alimentata dai voti decisivi di indagati e impresentabili, ha certamente influito sull’azione del governo e sul gradimento personale del premier. Lo si è visto subito, con il discorso del 24 febbraio 2014 in Senato dal quale ottiene la fiducia.

E’ il primo documento programmatico dell’era Renzi, cento giorni dopo saranno slide e conferenze stampa come il “programma dei mille giorni” lanciato ad agosto 2014. Verteva su pochi punti (riforme, Europa, conti pubblici, scuola e giustizia) uniti dalla promessa di un “cambiamento radicale, immediato e puntale per l’Italia”. Oggi Renzi farà il suo sui mille giorni e cercherà di dimostrare il contrario, che è un leader del fare, non del raccontare. E che il 4 dicembre, visto che il referendum è su di lui, è tempo di supplementari, senza spogliatoi o panchine. Seguiranno, probabilmente, nuovi annunci e poca autocritica. I margini ci sono perché anche sugli impegni più solenni Renzi riesce, con baldanza, in formidabili inversioni a “U” , con un occhio attento alle convenienze del momento. Qualche esempio, tratto dal discorso del febbraio 2014, quello che gli valse l’incarico di governo.

1. La Buona Scuola, anzi no
Il primo a verbale, per priorità, era la scuola. Durò poco, pochissimo, l’impegno solenne di recarsi personalmente, il mercoledì mattina, in un istituto “per dare un segnale simbolico di dimostrare che da lì riparte un Paese” mentre il Paese è penultimo in Europa per crescita. Arrivò la Buona Scuola, presentata come la panacea di tutti i mali che di buono per ora ha ben poco tra cattedre scoperte, lezioni a orario ridotto, esplosione delle supplenze e il caos dei docenti a chiamata e delle cattedre provvisorie.
2. L’edilizia scolastica, promessa a metà
Non a caso la scuola ribolle di proteste con 200mila precari rimasti per strada. Gli investimenti per l’edilizia scolastica dovevano essere “10 miliardi in tre anni” (9 marzo 2014), quattro mesi dopo scendevano a uno in due (2014-2015) per poi attestarsi a 3,9. Metà della promessa aspetta ancora, da mille giorni. Renzi almeno questo, recentemente, lo ha ammesso.
3. Europa: “La migliore tradizione europeista”
Anche il braccio di ferro con l’Europa, vero o simulato che sia, riporta al discorso iniziale. Renzi che oggi attacca Bruxelles è lo stesso che a braccio recitava: “Capisco che in quest’Aula, come alla Camera, come nell’opinione pubblica, ci sia la facile tendenza a considerarla la madre dei nostri problemi. Vorrei dire non soltanto che per me e per il Governo che ho l’onore di presiedere non è così, ma che nella tradizione europeista sta la parte migliore dell’Italia”.
4. Imprese e debiti della Pa: “Se perdo la scommessa…”
Sempre in aula prometteva lo sblocco “immediato” e “totale” dei debiti della Pa. Renzi arramba e firma anche il contratto da Vespa: “Se il 21 settembre paghiamo tutti i debiti, Bruno Vespa fa a piedi Firenze-Monte Senario. Se non reggiamo la scommessa immagino dove mi possono mandare gli italiani” (13 marzo 2014, Porta a Porta). Mille giorni dopo lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici si aggira ancora intorno ai 60 miliardi.
5. “Fuori i partiti dalla Rai”
Uscito dagli studi televisivi ripete “fuori la politica dalla Rai”, salvo varare una riforma che fa nominare il dg dal Tesoro, il cda da Parlamento, Governo e assemblea dei dipendenti nonché il presidente dalla commissione di vigilanza. E voltarsi dall’altra parte quando venivano silurati direttori e programmi non allineati. E il canone? “Appartengo a una cultura che vorrebbe abolirlo”, dirà il 27 marzo 2015. Poi lo abbasserà a 100 euro, ma versati da tutti perché finisce in bolletta.
6. E la ammazza-processi resta
Era anzi un punto cardine: “mettere nel mese di giugno all’attenzione di questo Parlamento un pacchetto organico di revisione”. Mille giorni dopo il pacchetto, approvato alla Camera è impantanato al Senato, ostaggio di veti del centrodestra cui Renzi presta il fianco per non perdere il suo appoggio al referendum. Risultato: resta in vigore la famosa Cirielli, l’ammazza processi voluta da Berlusconi.
7. Reddito minimo, quasi a zero
Nel programma per le Europee Renzi infilò l’impegno a portare a casa un “reddito minimo garantito in tutti gli Stati membri entro il 2025”. La promessa ancora oggi – mille giorni dopo – latita, tanto che solo Grecia e Italia non l’hanno ancora istituito. La risposta per ora è un provvedimento da 320 euro al mese (che è poi un sussidio) per un milione di poveri assoluti: benemerito, ma nulla a che vedere.

L’elenco delle promesse disattese potrebbe riempire un libro di oltre mille pagine. Il punto, alla fine, è uno solo: Renzi si è presentato come un elemento di rottura e di cambiamento, il rottamatore al comando che avrebbe travolto la “palude dell’immobilismo” e riformato il Paese. Poco dopo aver compiuto i mille giorni il suo governo rischia invece di cadere. Non tanto o solo perché gli italiani potranno, se vorranno, annegare nell’urna “la madre di tutte le riforme”, quella che dovrebbe sbloccare tutti gli ingranaggi che trattengono il potenziale dell’Italia. Ma perché avranno deciso se è un uomo del dire anziché del fare.

La posta in gioco l’ha messa lui, con una non comune presunzione di far coincidere il proprio destino con il bene comune. Senza dubbi, senza concessioni ai “gufi” che nella retorica renziana, che punta a catalogare e dividere, sono poi l’altra Italia, quella che rema contro le sfide del leader-vate del cambiamento. Sindrome dell’uomo solo al comando, si è detto. Unica concessione? Per l’amico Oscar Farinetti: ha ragione, c’è un problema di “simpatia” che lo allontana dalla gente. Ha ammesso, infine, di essere “a volte cattivo, arrogante e talvolta impulsivo”. Ma forse anche questo è un finto annuncio dei mille giorni. A Firenze, dopo 5 anni, lo chiamavano “il bomba”.