Gli effetti sui mercati più immediati e vistosi dell’elezione di Donald Trump sono stati il rafforzamento del dollaro e un aumento generalizzato dei rendimenti dei titoli di Stato. Entrambi hanno una matrice comune: l’idea che le scelte economiche della nuova amministrazione Usa produrranno maggiore inflazione e quindi indurranno la banca centrale statunitense a muoversi più in fretta nel percorso di rialzo dei tassi. In campagna elettorale Trump ha infatti tra l’altro prospettato un alleggerimento fiscale sulle aziende, maggiori investimenti in infrastrutture, deregolamentazioni di diverse attività economiche, senza troppo preoccuparsi delle ricadute sulle finanze pubbliche. In particolare le tasse sulle imprese statunitensi dovrebbero ridursi dal 35 al 15% e in cantiere ci sarebbe un piano di investimenti infrastrutturali da 500 miliardi di dollari.

Se attuate sono tutte misure destinate a spingere l’economia e quindi, presumibilmente, innescare un rialzo dell’inflazione. A quel punto la Federal Reserve reagirebbe alzando i tassi di interesse. Come tutte le banche centrali la Fed ha infatti anche il compito di limitare la corsa dei prezzi ed evitare che l’economia si surriscaldi (celebre la battuta secondo cui il compito dei banchieri centrali è quello di portare via gli alcolici quando la festa inizia a diventare troppo animata).

La prospettiva dell’aumento dei tassi fa scendere i prodotti finanziari – Un aumento dei tassi, o semplicemente la prospettiva che questo accada, provoca un immediato adeguamento dei rendimenti di tutti i prodotti finanziari. Ma l’unico modo in cui il rendimento di un titolo di Stato può scendere o salire è la variazione del valore dello stesso titolo. Bund, Btp, Treasury eccetera pagano infatti una cedola fissa che non cambia mai. Ad esempio un titolo decennale che vale 100 e rende il 10% pagherà ogni anno sempre 10. Se però nel frattempo i rendimenti salgono (a titolo di esempio di un altro 10%), il valore del titolo scende. Se viene scambiato a 50 invece che a 100 e la cedola è ancora di 10 l’interesse pagato diventa del 20%.

Oggi i mercati si attendono che i titoli di Stato di prossima emissione renderanno più di quelli in circolazione e quindi il loro valore si adegua automaticamente. Questo non sta accadendo solo in Italia. I rendimenti dei titoli decennali Usa sono saliti fino al 2,3%, il bund tedesco è passato dal -0,2% di ottobre al +0,3%, i Btp italiani a 10 anni sono saliti fino al 2,2% sui massimo da oltre un anno. L’Italia però, come spesso accade, vive anche dinamiche particolari. In qualche misura incidono anche le incertezze legate al referendum del 4 dicembre, come dimostra l’allargamento del differenziale di rendimento rispetto ai titoli spagnoli. Uno dei bond più colpiti dal calo di valore è il Btp cinquantennale collocato con grande successo lo scorso 4 ottobre per un ammontare complessivo di 5 miliardi di euro. Attualmente chi avesse investito nel Btp 50 anni 10mila euro si troverebbe in portafoglio titoli che valgono circa 8.500 euro.

Con la deflazione e i tassi in rialzo il peso del debito può diventare insostenibile – Rendimenti in crescita significa anche che il Tesoro deve pagare interessi più alti sui suoi titoli: si calcola che un incremento dello 0,25% nel costo del denaro comporti in prospettiva oneri aggiuntivi per circa 3 miliardi di euro l’anno. Attenzione però perché, da questo punto di vista, l’incremento dei tassi incide sulle nuove emissioni e non sui titoli già in circolazione. Ci vuole quindi un certo tempo per avere un impatto effettivo sulle finanze pubbliche. Questo rende anche difficile capire quanto la situazione attuale possa avere un impatto sulle stime del governo secondo cui la spesa per interessi è destinata a ridursi dagli attuali 66 miliardi ai 62 miliardi del 2018. Il vero problema per l’Italia e il suo debito è però un altro, ossia che questo scenario di aumento dei tassi si innesta su una situazione di moderata deflazione, in cui i prezzi calano invece che salire. Uno degli effetti positivi dell’inflazione è quello di alleggerire il peso del debito. La cifra da rimborsare rimane la stessa in valore assoluto ma diminuisce in termini relativi. Con la deflazione accade esattamente l’opposto, il peso che grava sul debitore aumenta di anno in anno. Non una bella situazione per un Paese che ha oltre 2mila miliardi di euro di debito sotto forma di titoli di Stato, un fardello che con il mix deflazione e tassi in rialzo potrebbe diventare davvero insostenibile.

Timori per i bilanci delle banche? Il rialzo su tassi di prestiti e mutui le compenserà – In questi giorni si è parlato anche dell’effetto negativo che l’aumento dei rendimenti (e quindi la discesa dei valori dei titoli) avrebbe sui bilanci delle banche italiane. Che hanno in pancia circa 400 miliardi di euro in titoli di Stato italiani con una durata media di 4,6 anni. L’84% sono classificati “available for sale”, ossia disponibili per la vendita, cioè titoli che la banca non intende necessariamente portare a scadenza. La caduta del loro valore riduce, temporaneamente, la riserva che le banche sono tenute ad accantonare quando li acquistano e questo ha un impatto sugli indicatori che sondano la solidità patrimoniale. Spingendosi nel tecnico, secondo calcoli effettuati da Deutsche Bank, un incremento dello spread di 50 punti comporta per le principali banche italiane un peggioramento di 25 punti base del ratio Common Equity Tier 1, il principale indice di solidità della banca. Ubi Banca e Mps risultano i due istituti più esposti a questo fattore. Non bisogna però dimenticare però di guardare all’altro elemento di questa situazione, vale a dire le pressioni al rialzo sull’Euribor su cui sono calcolati i tassi di prestiti e mutui. Un aspetto che in prospettiva ha un impatto ben maggiore, e positivo, su ricavi e quindi sui bilanci degli istituti di credito.

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