Igort, il celebre autore di fumetti, illustratore, saggista, nella sua biografia appena uscita per Chiarelettere, se ne infischia di mode, vulgate comuni, sogni collettivi, e ne propone uno lui, illuminazione personale, salvezza vitale, emersione da un basso soffocante, luce della creazione in fondo al tunnel dell’ovvietà
Se c’è una posizione intellettuale presa di petto, anticonformista, politicamente un po’ scorretta, e infinitamente anti-organica, è quella di Igort. Il celebre autore di fumetti, illustratore, saggista, nella sua biografia “My generation”, appena uscita per Chiarelettere, se ne infischia di mode, vulgate comuni, sogni collettivi, e ne propone uno lui, illuminazione personale, salvezza vitale, emersione da un basso soffocante, luce della creazione in fondo al tunnel dell’ovvietà. Quel “my generation” alla Who significa proprio la “mia generazione”, quella vissuta da Igor Tuveri individualmente, classe 1958 da Cagliari. Spariti oramai dallo spettro editoriale le memorie dei sessantottini, hanno iniziato a girare da un po’ come polvere esplosiva quelle di chi ha fatto il ’77, altro ramo scossato e sfrondato all’infinito delle utopie giovanili. Ed è come se il cofondatore di Coconino Press, pur arrivando nella Bologna di Bifo e Radio Alice nel ’78, dopo i carri armati in piazza di quel Cossiga=SS, quell’anno “spartiacque” lo attraversasse in solitaria, o al massimo con i sodali ribelli Andrea Pazienza e Daniele Brolli al fianco. Igor 20enne, pensiero cupo e defilato, ragazzo che dalla profonda Sardegna arriva “in Continente”. E sia mai, la descrizione appena espressa è di rispetto e stima. Di ammirazione per un percorso mica tanto semplice, mica tanto hollywoodiano. Sangue, sudore, lacrime.
My Generation di Igort è una cavalcata fluttuante come le onde del mare, un susseguirsi di brevi capitoletti, suggestioni, flash, fermi immagine su un rewind storico che ruvido come carta vetrata raschia via retorica, buonismo, e favole di gioventù. L’iperuranio del nostro è un mondo ordinato da dottrine di partito, sfatto di eroina, sospinto dall’anelito dei cambiamenti sociali che sembrano fini a se stessi. Poi ogni tanto un gulp, uno sbam, un vero pam pam, l’onomatopea trasformata in vocaboli scritti in maiuscolo. Pungoli che forano, rimbombano, scuotono. La folgorazione con Alter Linus nel 1975 e l’apnea davanti al disegno “volumetrico” di Moebius. David Bowie, alieno che cade sulla terra degli uomini, Ziggy Stardust “costume scintillante” appoggiato con una gamba contro una ringhiera, “fanculo alla tetraggine di certa musica”. E ancora: Lou Reed e le sue oscure elegie metropolitane; Salinger e Hubert Selby jr (“il John Coltraine della letteratura”); la Ricotta di Pasolini (“filmetto meraviglioso e blasfemo”) e l’autore friulano, rievocato un po’ alla Muccino, che con quel “modo ironico, sottile, tecnicamente maldestro di fare cinema mi intrigava”.
Autonomia didattica, ascolto e osservazione libera, Igort sopravvive e rilancia con una sua schizzinosa e travolgente playlist, costruendo un universo personale che attacca il pensiero dell’intellettuale organico (spassosissime le pagine dove sbeffeggia i saputelli di partito che avevano “capito” 2001 e Solaris) come la peste tragica dell’eroina; il sapere e l’essere paterno come “la pioggia di fuoco, di vita, e di disperazione” della tanto agognata Londra punk, realistico schiaffo sul viso con i veri “bassifondi dell’esistenza” visti in Arancia Meccanica. Poi ancora altri nemici sul selciato accidentato percorso dal ragazzo sardo: il soul che “degenerò nella disco”, i “figli dei fiori” capelli lunghi e profumi orientali di quella “controcultura che annoiava”, gli italiani “moralisti e paciocconi” dei primi anni settanta, William Burroughs vestito da rappresentante di commercio meglio del modaiolo Jack Kerouac idolo fricchettone “che sapeva di lercio”.
Libro incantevole e delicato questo My generation, e allo stesso tempo potente, devastante, rullo compressore di ogni benevolente ricordo degli anni di gioventù. Biografia di contrasti e di contrari, di differenziazione e presa di distanza, di “rieducazione” alla vita. Igort che prima di diventare a sua volta guru del fumetto, è l’universitario meridionale che subisce ogni genere di angheria razzista (“affittasi casa per studenti non meridionali”), scopre che al Nord “la rugiada esiste”, lavora, si sporca le mani, si dà da fare vendendo detersivi porta a porta o lavando auto in pieno inverno. Condivide con Paz e compagnia disegnante intere giornate di bolognesità, strisce e storie date alle stampe, editori che telefonano e pagano. Ed è qui che il librone scritto da Igor T, spillone da balia, duca bianco e Banksy in copertina, regine sputtanate dai Sex Pistols e lamette per tagliarsi le vene sulla quarta, si ferma senza andare oltre il tempo dei trent’anni o giù di lì. Proprio quando l’eroina uccide, quando la “bolla si svuoterà della nostra acqua vitale e quella polvere ci coprirà”. Igort sogna e si ritrova in un 27 marzo 2012 sempre tra i portici della “dotta”, boutique di lusso e commessi impomatati a disprezzarlo dall’alto della loro pedana. “Dove sono finiti tutti? Dove sono finiti Francesca, Pier Vittorio, Andrea e Freak? Era venuta la morte a portarseli via. O era stata la delusione. In un paese incapace di fare sistema, le poche imprese di una volta si erano accartocciate su se stesse. L’illusione di riuscire a fare del divertimento e della fantasia un lavoro era sfumata”.