Al 34° Torino Film Festival in Concorso arriva uno dei più bei titoli della stagione. Porto, diretto da Gabe Klinger, giovane regista brasiliano che tre anni fa girò un documentario – Double Play – sulla casa di produzione sui generis di Richard Linklater. Qui Klinger è alle prese con una love story consumata in una notte tra le stradine, i vicoli, le fioche luci della struggente cittadina portoghese. Lui è Jake (un immenso, paciniano, Anton Yelchin), ragazzo statunitense dai lavoretti saltuari, dropout un po’ ingobbito e disilluso dalla vita; lei è l’affascinante Mati (Lucie Lucas), 32enne, dottoranda in archeologia, con un prof vecchiotto come amante, e la voglia di ricominciare a vivere dopo una “parentesi” di pazzia. I due si incrociano la prima volta per coincidenza tra gli scavi, la seconda per caso in treno, la terza “it’s happening” in un bar. In pochi attimi sentono che la notte che arriverà la ricorderanno per sempre. Fanno l’amore una, due, tre, e chissà quante altre volte, prolungano con una sottesa vena di disperazione il piacere e il godimento dell’esistenza prima che sfugga e non ricapiti più.
Racconto semplicissimo che grazie all’elaborazione formale e stilistica di Klinger diventa “un’altra cosa”: tre capitoli (Jake, Mati e Jake and Mati), tracce di memoria, rapidi stacchi di montaggio tra una finta/vera granulata pellicola anni settanta che inquadra Porto e poi frammenti di incontri, di letto, di futuro (tragico) che verrà per lui; identico sviluppo evocativo temporalmente in andirivieni, con traiettoria evolutiva leggermente diversa ma non meno dolorosa, per lei; infine la terza traccia con i due amanti vicini, avvinghiati, e la voglia, la forza, la speranza che invece rimangano insieme tutta la vita. Ultimo film interpretato da Yelchin prima della sua terribile fine. Porto meriterebbe di essere distribuito come dio comanda per ricordare, prima che scompaia del tutto, l’origine del mistero della “magia del cinema”, affabulante contenitore di sogni, occhi spalancati nel buio di una sala.