Un anno fa è entrata in vigore la direttiva Ue che fissa un tetto di 48 ore di lavoro settimanale per il personale sanitario. Gli ospedali, sotto organico, reggono solo grazie al lavoro fuori turno. In barba all'obbligo di staccare per almeno 11 ore. Intanto molte Asl tamponano i buchi spendendo milioni per gli straordinari. In alcune città di Puglia e Calabria ricoveri bloccati e risposta alle urgenze non garantita. Annunciato sciopero per il 28 novembre
“Quest’anno ho lavorato 150 ore oltre l’ordinario turno di servizio. Ore extra che non mi verranno pagate. Ho quasi 70 giorni di ferie arretrate e ci sono colleghi che ne hanno accumulati 120″. È lo sfogo di un medico della provincia di Lecce. E il cahier de doléances è solo all’inizio: “Lavoro tre domeniche su quattro e non posso neanche recuperare le festività, perché non ho il giorno di riposo settimanale garantito. Come potrei, se nel mio reparto siamo appena sette medici ma in base alla pianta organica dovremmo essere il doppio? Nessuno di noi fa più libera professione intramuraria. Io ho 61 anni e sono il più giovane. Sta diventando un incubo, non ce la facciamo più ad andare avanti così”. Il suo è tutt’altro che un caso isolato, a un anno esatto dall’entrata in vigore della direttiva europea sull’orario di lavoro del personale medico e sanitario che prevede come minimo 11 ore consecutive di riposo giornaliero e massimo 48 ore di lavoro settimanale compreso lo straordinario. Il recepimento ha messo alle corde gli ospedali italiani, da tempo sotto organico a causa del blocco del turnover. Risultato: giovedì 17 novembre i medici hanno manifestato con un sit-in davanti al Parlamento chiedendo risorse adeguate per nuove assunzioni e stabilizzazione dei precari e per il 28 novembre quelli dipendenti dalla sanità pubblica hanno indetto uno sciopero.
Oggi da Milano a Palermo decine e decine di camici bianchi lavorano anche dopo aver stimbrato il cartellino, gratuitamente, in barba all’obbligo di riposo tra un turno e l’altro e, molto spesso, superando anche il limite delle 48 ore settimanali. “È l’unica maniera per non lasciare scoperti i reparti. A me il primario lo chiede più volte al mese. Capita che sia stanca e poco lucida, ma come faccio a dire di no?”, racconta una dottoressa del nord. Nel capoluogo lombardo un pediatra non ha avuto alternative: per somministrare ai suoi pazienti le terapie contro le allergie, non rimandabili e fissate al mattino, è entrato in ospedale alle 8 senza timbrare e dodici ore dopo ha iniziato il turno di notte che gli era stato assegnato, senza rispettare la pausa di 11 ore. I rischi però sono altissimi, perché se il medico non risulta ufficialmente in servizio non gode della copertura assicurativa.
“Io sono un chirurgo e personalmente non mi assumerei mai questa responsabilità“. Stavolta a parlare è un’altra dottoressa della provincia di Milano. “Se succede qualcosa al paziente, cosa faccio? Chi risponde? Ma ho tanti colleghi che accettano questo pericolo, altrimenti le liste di attesa si allungano, gli interventi in agenda saltano. E naturalmente le ore in sala operatoria sono gratis”. Da un ospedale di Roma un ragazzo di 27 anni denuncia: “Sono uno specializzando nel reparto di anestesia e ogni settimana lavoro almeno 60 ore anziché 38”.
Il sindacato dei medici dirigenti (Anaao) della Lombardia ha sottoposto a tutti gli iscritti un sondaggio anonimo per capire se gli ospedali si attengono alla normativa europea sull’orario di lavoro. Il quadro che ne esce è preoccupante. Il 40 per cento dei camici bianchi non rispetta l’intervallo di riposo di 11 ore nelle 24 ore tra un turno e quello successivo. Il 60 per cento ha ammesso che non sono previste forme di tutela per chi è reperibile nel caso dovesse essere chiamato di notte (per esempio, se il turno inizia il pomeriggio successivo alla reperibilità). Due su dieci non recuperano il festivo lavorato e tre su dieci superano le 48 ore alla settimana. Stessa stima di chi sta in corsia senza aver prima timbrato il cartellino.
In attesa dello sblocco del turnover, che il governo ha annunciato per il 2017 con la possibilità di stabilizzare 7mila precari, lo strumento più richiesto ai medici dalle direzioni sanitarie aziendali per tamponare la carenza di organico sono le prestazioni aggiuntive: ore di lavoro in più programmate per un certo periodo e concordate con il medico, a cui vengono pagate a parte. In alcune realtà sono diventate la norma. In una asl di provincia come quella di Frosinone nel 2015 sono stati spesi quattro milioni di euro circa in prestazioni aggiuntive. “Alla fine del 2016 invece il conto sarà dimezzato grazie a un’ultima infornata di medici e infermieri”, assicura il commissario straordinario Luigi Macchitella, che aggiunge: “Il fondo usato per compensare lo straordinario l’anno scorso è stato sfondato di quattro milioni di euro. Quest’anno dovremmo stare dentro la cifra. Ma dal 2017 cinquanta medici andranno in pensione e sarà un problema”.
Per ottimizzare le risorse succede che i turni di guardia vengano accorpati per unità operative e non più organizzati per singoli reparti. E nei casi peggiori non si può più contare sulle urgenze. “Nel mio reparto non si fa più assistenza h24 ma solo per 12 ore al giorno. Niente urgenze dunque”, lamenta un medico dalla Calabria. “Nella chirurgia dell’ospedale di San Severo sono in 5 anziché 9 e in ortopedia, dove sono in 2 al posto di 7, da luglio hanno bloccato i ricoveri e i pazienti sono stati trasferiti in altre strutture a una trentina di chilometri di distanza – spiega Massimo Correra, segretario dell’Anaao di Foggia -. Mentre negli ospedali di Cerignola e Manfredonia per l’insufficienza di anestesisti vengono programmati al massimo tre/quattro interventi al mese, il personale ormai basta soltanto per le urgenze”.