Sarà una mia sensazione ma vedo l’elezione di Donald Trump come un segnale di debolezza, grande debolezza. Andiamo con ordine. A me sembra che il cosiddetto mondo occidentale sconti una progressiva perdita di potere rispetto al dominio incontrastato che ha potuto esercitare in questi anni. Lasciamo stare riflessioni anche complesse che portano a dire che il governo del mondo avrà – molto probabilmente – sede in Eurasia, concentriamoci invece su ciò che potrebbe accadere al dollaro americano.

Non c’è dubbio alcuno che esso rappresenti fisicamente l’emblema di un Impero ormai da più o meno un centinaio d’anni ma bisogna chiarire sulla base di che cosa tale dominio si fondi: la fiducia. Tu sai che ovunque nel mondo, se ti presenti in qualsivoglia ufficio-cambi o banca, quel biglietto verde ti viene accettato senza discussione alcuna. Ma proviamo a immaginare uno scenario diverso che, per una qualsivoglia ragione, il dollaro Usa sia meno richiesto, meno forte di quanto tradizionalmente accaduto. E non intendo oggi: proviamo a pensare che il dollaro Usa possa, di qui a dieci, venti, trent’anni subire un progressivo abbandono perché sostituito da altre monete forti, fra le quali lo yuan-rembimbi cinese.

Gli Stati Uniti da sempre hanno fondato la loro ricchezza e la loro potenza militare su tre basi: una forte e indiscussa coesione sociale, una rilevante potenza industriale e la fiducia universale nel dollaro. Oggi tutte e tre queste basi risultano un poco scalfite: la stessa elezione di Trump segnala delle tensioni sociali non trascurabili (a votarlo sono state le categorie più colpite dalla profonda trasformazione tecnologica – subentro della Cina ma anche di molti altri Paesi delocalizzati); la potenza industriale è fortemente attaccata dalla Cina; anche la fiducia nel dollaro non è più così granitica.

Ma anche per quanto riguarda la fiducia nel dollaro si è verificato un episodio che la dice lunga sulla sua attesa tenuta. Un episodio estremamente significativo del tutto trascurato dai media. Nel mondo delle obbligazioni (i bond) il sistema americano (come altri sistemi) si divide sulla base delle durate: obbligazioni a dieci anni, a vent’anni, a trent’anni.

Ora la settimana scorsa è accaduto che, subito dopo l’elezione di Trump, nelle obbligazioni a trent’anni (Thirty years bonds) l’indice è in quattro giorni letteralmente schiattato, cosa mai accaduta in passato: i bond trentennali del Tesoro Usa avevano raggiunto un massimo quotando 177 a luglio 2016; in data 8 novembre (presidenziali negli Stati Uniti) quotavano 166, da quando è stato eletto Trump, nelle 4 sessioni di trading successive, sono sprofondate a 154-153. L’Agenzia Bloomberg ha notificato che nello stesso lasso di tempo sui mercati obbligazionari mondiali sono andati in fumo 1 trilione di dollari di valore in obbligazioni (le quotazioni sono sprofondate anche in Europa e Giappone, segno che la “bolla” sull’obbligazionario ha iniziato lentamente a sgonfiarsi). Sempre in tema di obbligazioni si sono alzati in modo brusco tutti i tassi.

Che Trump significhi un ritorno alle politiche inflazioniste non ci vuole un Premio Nobel per immaginarlo: anche perché fa parte dello stile del suo dna rilanciare inflazione, cioè agire senza alcuna considerazione dei debiti che si generano oggi a carico dei nostri figli. Ma il fenomeno Thirty years bonds sottintende un altro e ben più pericoloso significato: l’atteggiamento degli investitori in dollari a lungo termine sulla tenuta del dollaro: i grandi Paesi detentori di USdollars se ne stanno liberando, tutte le più significative riserve in dollari non-americane stanno scendendo.

Che si tratti di una preconferma dell’ipotesi di passaggio del potere mondiale in aree non-Usa?

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