Il generale in pensione James Mattis è in corsa per guidare il Pentagono. Sessantasei anni, Mattis è una figura leggendaria nel campo militare degli Stati Uniti. All’età di 19 anni si arruola nei Marines per poi prendere parte a vari conflitti: guerra del Golfo, Afghanistan e Iraq. Nel maggio 2004 diede l’ordine di colpire una struttura sospetta a Mukareeb, un piccolo villaggio iracheno. Ma l’obiettivo in questione risultò essere la sede di un matrimonio. Le sue bombe uccisero più di quaranta persone tra uomini, donne e bambini che frequentavano la cerimonia in corso. Mattis è famoso anche per i suoi aforismi come: “Be polite, be professional, but have a plan to kill everybody you meet”, uno slogan che parla da solo oppure “I Marines non conoscono la parola sconfitta”, “Marines don’t know how to spell the word defeat”.
Eppure ci sono differenze grandi, anche enormi, tra Mattis e Trump. Mattis, per esempio è un avido lettore con una biblioteca personale di oltre 6.000 libri e contenente Sun Tzu, Ulysses S. Grant, George Patton, e Shakespeare. Mattis addirittura preparò una lista di testi da studiare per i suoi ufficiali prima della missione in Iraq nel 2004 suggerendo le opere di Sir Hew Strachan, suo stratega preferito. Egli stesso è stato coautore di un manuale sulla controinsurrezione volto a limitare le violenze in Iraq, Mattis è poi contrario all’isolazionismo ma favorevole al costante impegno americano nel mondo. E’ inoltre anche un conservatore fiscale e alquanto scettico in merito al taglio delle tasse.
Insomma molti sono preoccupati dall’agenda futura di Trump ma se si dà un’occhiata in giro per il mondo le cose vanno a suo favore. L’Europa in questo momento non è un grande problema e soprattutto non sarà mai un blocco compatto. Non avrà mai una politica estera comune e sarà sempre più frammentata, con una periferia filoamericana che circonda un nucleo centrale franco-tedesco scettico, comunque alle prese con altri problemi in primis i migranti e le prossime elezioni politiche tedesche. In Russia Vladimir Putin ancora deve prendere le misure sulla politica estera, in quanto fallisce ogni volta che tenta di riaffermare il suo primato sul cosiddetto “estero vicino” o anche solo di frenare l’avanzata della Nato nel cuore del suo ex impero vedi la questione Ucraina e non solo. La Cina si moltiplica, ma la sua economia è legata a doppio filo a quella americana, per il cui modello di sviluppo nutre spontanea ammirazione. Resta poi aperto il capitolo Corea.
L’idea che Trump voglia bombardare tutti in Medio Oriente è più da slogan propagandistico. E’ più probabile che li abbandonerà al loro destino rinegoziando soprattutto l’accordo sul nucleare iraniano. In questo caso Mattis è un suo alleato, vista la sua pozione critica in passato verso l’Iran e che costrinse l’amministrazione di Obama a ritiralo dal suo incarico nel 2013 concedendogli un pensionamento anticipato. Il capitolo mediorientale dell’America First di Donald Trump, insomma non è sinonimo né di aggressività, né di interventismo. Più chiara, invece, la sua posizione sui musulmani che sicuramente non piacerà a molti. Per il resto a sentirlo già dal suo primo discorso dopo la vittoria sembrerebbe prevalere l’arte del restraint.