«Ricordo che andammo ai grandi magazzini e comprammo migliaia di fazzoletti bianchi. “Se vi viene da ridere, infilatevi uno di questi in bocca”. Una volta, nel bel mezzo delle riprese di una scena, mi voltai e vidi un mare di fazzoletti in bocca a tutti. Mi dissi: “Abbiamo per le mani un grande successo. Questo film sarà decisamente un grande successo”. Perché l’unico test per una commedia è quello delle risate a crepapelle. Non mi interessa quanto siano belle le luci, quanto sia superlativa la sceneggiatura, quanto siano meravigliosi gli attori. Se stai facendo una commedia e la crew non cade a terra tenendosi la pancia dalle risate, allora hai per le mani un fiasco. Prima le risate, poi la qualità. Mi dispiace, ma è la pura verità».
Parola di Mel Brooks, regista di alcuni dei più divertenti film della storia del cinema e, segnatamente, di Frankenstein junior, che a quarantadue anni di età (uscì negli Stati Uniti il 15 dicembre 1974) viene celebrato con un libro ricco di aneddoti (come quello dei fazzoletti anti-risata) e foto di scena: Frankenstein Junior – Memorie dal set e altre quisquilie, scritto da Mel Brooks medesimo con Rebecca Keegan e pubblicato in Italia da Sagoma editore.
Se il film ha fatto e continua a far ridere a crepapelle milioni di spettatori, come previsto dal suo regista, il libro non è da meno. La genesi di alcune scene topiche è quasi più divertente delle scene stesse. Per esempio, quella fra Marty Feldman (Igor – Aigor, in inglese stessa pronuncia di “eye-gore”, sanguinolenza degli occhi) e Madeline Kahn (Elizabeth, fidanzata di Freddie Frankenstein – Gene Wilder) così come è raccontata dalla giornalista Loraine Alterman, che vi assistette sul set (e che poi nella vita sposò il “mostro” conosciuto in quell’occasione): «Mel si mette al lavoro sul dialogo tra Marty e Madeline al momento del suo arrivo. Senza preavviso Marty comincia a mordere selvaggiamente il pellicciotto di volpe e ringhia, e Madeline allora lo colpisce sulla testa con la sua borsetta. “Di colpo ci siamo messi a fare i fratelli Marx”, dice Gene. “In questa scena ci sono tutti i Fratelli Marx, Groucho, Harpo e Zeppo”, risponde Mel. Tutte le volte che cercano di andare oltre la battuta (“Lei porta la bionda e io questa qui col turbante”, ma Freddie si riferiva alle valigie, ndr) tutti – attori, tecnici e lo stesso Mel – non riescono a non scoppiare a ridere di fronte alla perfetta performance alla Groucho Marx di Marty. “Non verremo mai a capo di questa scena”, sentenzia Mel trattenendo un sorriso. “Non facciamo che ridere. Ok, allora, al diavolo il pubblico, almeno ci siamo divertiti”».
Ma il libro è anche la celebrazione di tutti gli artefici del grande successo del film, dai più noti ai meno conosciuti. Pochi sanno, per esempio, che il soggetto è di Gene Wilder (scomparso a 83 anni nell’agosto scorso) e la sceneggiatura scritta a quattro mani da lui e da Mel Brooks. O che la maggior parte degli arredi scenici del laboratorio di Frankenstein proveniva dall’equipaggiamento originale del film primigenio, ispiratore di tutti quelli che seguirono, e cioè il Frankenstein di James Whale del 1931. Racconta il produttore Michael Gruskoff: «Il nostro production manager, Frank Bauer, fece una scoperta incredibile: Kenneth Strickfaden, l’artista degli effetti speciali che aveva disegnato i luccicanti e ticchettanti macchinari di laboratorio dei film di James Whale, viveva a Santa Monica e conservava ancora nel suo garage tutti gli arredi scenici elettrificati. Così andammo a recuperarli nel garage di Strickfaden, che li rimise in funzione per noi». Non senza rischi: “Sono sicuro che abbiamo rischiato la vita di Peter Boyle un mucchio di volte, versandogli addosso zuppa bollente o dando fuoco al suo pollice”.
Quella della zuppa è un’altra scena clou, interpretata oltre che da Boyle (il mostro o creatura) da un grande attore che pochi, all’epoca, riconobbero: Gene Hackman (lavorò a titolo quasi gratuito pur di partecipare a questa storia di straordinaria follia), trasformato in Abelardo, l’eremita cieco e barbuto che ustiona la povera creatura. E a proposito del mostro: la cerniera alla base del collo fu un’idea del regista, prontamente realizzata da William Tuttle, artefice anche del particolare cerone verde che, con la pellicola in bianco e nero, dava a Boyle un’aria ancora più sinistra: «Con Mel Brooks c’è da aspettarsi sempre qualcosa di nuovo e di meraviglioso. Lavorare con lui è sempre un grande spasso».
E per qualcuno il coinvolgimento e il divertimento furono tali che non voleva più abbandonare il set: «L’ultimo giorno di riprese, dopo aver girato l’ultima scena, tutti se ne andarono. Gene sedette sul bordo del letto che avevamo usato nella scena con lui e Teri (Teri Garr-Inga, Ndr). Disse: “Ho qualche idea per alcune nuove scene”. Gli dissi: “Gene, è finita. Abbiamo finito di girare tutto. Abbiamo un inizio, uno svolgimento e una fine. È perfetto!” Gene seppellì il viso tra le mani e mi disse: “Mel, non voglio tornare a casa. Voglio rimanere qui. Questo è il periodo più felice della mia vita”».
Per tantissimi altri, furono e restano i 95 minuti più esilaranti della loro vita. Almeno al cinema.