Montecitorio ha votato la fiducia sulla manovra, arrivata in Parlamento ben 14 giorni dopo il varo in consiglio dei ministri. "Dispiace dire che è stata una grande occasione persa", ha commentato il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia dopo 22 giorni di scontri per far rispettare la riforma che vieta le norme localistiche e microsettoriali. Ma i vecchi vizi sono duri a morire
Una eventuale vittoria del No al referendum non avrà “assolutamente” effetti sull’approvazione della manovra. “Non ci saranno sorprese”, ha garantito il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. E per una volta quello del titolare del Tesoro non è un auspicio mirato a rassicurare i mercati, ma poco meno di una certezza. Tutto è stato studiato a tavolino, da ben prima che la legge di Bilancio prendesse forma: il governo voleva incassare il via libera della Camera prima del fatidico 4 dicembre e così è stato. Venerdì pomeriggio l’aula della Camera, con 348 sì e 144 no, ha votato la fiducia (in barba al regolamento che prevede che passino 24 ore tra la richiesta da parte dell’esecutivo e il voto). E lunedì, prima della settimana di sospensione dei lavori, ci sarà il via libera finale di Montecitorio. A dispetto della deprecata “lentezza nell’approvare le leggi” che Matteo Renzi, quando snocciola le ragioni del Sì, mette poco dopo la riduzione dei costi della politica. Sostenendo che la riforma le farebbe invece filare come un treno grazie all’addio al bicameralismo perfetto. La realtà è che, quando la volontà politica c’è, le norme passano senza intoppi e in tempi brevi. Anche quando, ed è il caso della ex finanziaria, l’iter attraverso cui approdano in Parlamento è decisamente accidentato.
Basti dire che tra il via libera consiglio dei ministri, datato 15 ottobre, e l’invio alle Camere sono passati ben 14 giorni. Perché, come accade da quando Renzi si è insediato a Palazzo Chigi, i ministri in realtà hanno approvato solo uno schema di massima. E mentre il premier presentava alla stampa 33 slide (hashtag: #passodopopasso) con una manciata di dati, di fatto i tecnici del Tesoro dovevano ancora iniziare a scrivere il ddl. Lo stesso, appunto, è successo anche nel 2014 e 2015, ma nel caso della prima legge di Stabilità di questo governo sono stati sufficienti sei giorni per l’invio del testo al Colle (peccato mancasse la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato) e otto perché arrivasse alla Camera, mentre lo scorso anno di giorni ne sono passati dieci. Stavolta sono servite appunto due settimane di limatura prima che il documento che stabilisce come saranno spese le risorse dello Stato nei prossimi tre anni diventasse di dominio pubblico.
Poi, il 2 novembre, l’inizio dell’esame da parte della commissione Bilancio della Camera. Che non è certo filato liscio. Prima ancora di vedere il testo il presidente Francesco Boccia ha dovuto mettersi di traverso per evitare che ai deputati venisse presentato un testo “fuori legge”: le bozze, infatti, prevedevano nuovi aumenti automatici di imposte (le cosiddette clausole di salvaguardia) per coprire gli eventuali buchi che si apriranno se la riapertura della voluntary disclosure, cioè l’operazione per la riemersione dei capitali nascosti al fisco, non frutterà alle casse dello Stato almeno 1,6 miliardi. Peccato che la scorsa estate sia stata approvata una riforma del bilancio dello Stato che puntava a rendere il ddl molto più snello. E, tra le altre cose, vietava di inserirci norme “microsettoriali” e interventi “di natura localistica“. Di qui l’altolà preventivo di Boccia, dopo il quale il governo ha sostituito le clausole con la previsione che in caso di introiti inferiori alle attese interverrà il Tesoro disponendo tagli di spesa o altre coperture. Ma non è finita: testo alla mano, Boccia ha verificato che di norme settoriali ce n’erano molte altre e ha chiesto e ottenuto lo stralcio di 28 tra articoli e commi.
Poi è partito l’esame vero e proprio e, nonostante la riforma limitasse anche il numero di emendamenti presentabili, in commissione ne sono piovuti quasi 5mila. Di cui 1.500 subito cassati prima dell’esame perché, anche in questo caso, incompatibili con i nuovi criteri di formazione della legge di bilancio. Le richieste di modifica però hanno continuato a moltiplicarsi fino alla maratona notturna del 23 novembre che ha visto entrare nel ddl stanziamenti per la ferrovia Matera-Ferrandina, soldi in più per gli assegni alle famiglie numerose, sgravi fiscali alle banche etiche, contributi aggiuntivi alle scuole paritarie e chi più ne ha più ne metta. Nel frattempo non è mancato neppure lo scontro frontale con il premier sulla cosiddetta “norma Airbnb“: secondo Renzi una “nuova tassa” da evitare a tutti i costi, per Boccia un intervento doveroso per tassare introiti solitamente incassati in nero.
Non a caso dopo 22 giorni, inviato il ddl in aula, il presidente della Commissione ha descritto così la via crucis: “Dispiace dire che è stata una grande occasione persa. Non basta un vestito nuovo se non si abbandonano abitudini vecchie. Mi auguro di poter vedere, un giorno, una legge di Bilancio con solo 10 articoli e solo con misure di politica macroeconomica. Oggi abbiamo una legge che ce lo consente, peccato non averla sfruttata fino in fondo”.