Con una foto che mostra il suo profilo in ombra, sullo sfondo di un chiarore che può essere aurora o tramonto, l’Osservatore Romano ricorda Fidel Castro in prima pagina. La diplomazia mediatica vaticana conosce anche queste finezze. Castro, non dimenticano Oltretevere, è il rivoluzionario che ha creato un sistema dittatoriale ma non ha mai versato il sangue di un sacerdote, è il leader che ha sottoposto la Chiesa a un controllo ferreo, ma a partire dall’incontro con Giovanni Paolo II nel 1998 ha cominciato gradualmente a lasciare maggiore libertà alla Chiesa cubana, specialmente alle sue iniziative caritative. Soprattutto l’ex allievo dei gesuiti, amico del teologo della Liberazione Frei Betto, è stato per decenni in America latina simbolo di un anelito di riscatto e giustizia sociale che fatalmente in certi momenti ha finito per incrociare i documenti della Chiesa latinoamericana (ma anche certi passi di encicliche papali) dedicati al dovere dei cristiani di scuotere di dosso dai popoli del Continente i ceppi di ingiustizie strutturali – innegabili e permanenti.

Più di ogni cosa, però, Fidel è stato un personaggio che per la sua storia, il suo temperamento, la sua sensibilità latina ha sempre avuto con i tre Papi da lui incontrati un rapporto umano diretto, non imbalsamato nell’ufficialità. Intenso, molto intenso con Giovanni Paolo II, sincero con Benedetto XVI e Francesco. Se il summit di Fidel con Mikhail Gorbaciov all’Avana del 1989 si svolse sotto il segno di un duello sottilmente polemico – se voi volete fare la perestrojka, disse sostanzialmente in un discorso a sorpresa dopo l’intervento del leader sovietico all’assemblea nazionale cubana, lasciateci costruire il socialismo a modo nostro – l’incontro con papa Wojtyla a Cuba nel gennaio 1998 rivelò un’elegante, signorile tenerezza del Líder Máximo nei confronti del pontefice polacco già piegato dalla malattia. Fidel, sempre in abito scuro, lasciata da parte la divisa verde oliva della revolucion, sosteneva spesso (con enorme discrezione) Wojtyla nel suo incerto e faticoso procedere.

Non era un gesto formale. Fidel riconosceva in Wojtyla il leader religioso non clericale, che sapeva cos’era il lavoro, che amava la sua nazione e rispettava le altre, un uomo in carne e ossa per il quale le sofferenze dei dannati della Terra erano sofferenze sentite davvero. A livello subliminale si potrebbe anche dire che mentre in Polonia, infiammando le folle, nessun poteva dubitare che Karol Wojtyla volesse rottamare, seppur senza violenza, il regime comunista polacco, all’Avana Fidel avvertiva che Giovanni Paolo II per quanto parlasse di libertà (freneticamente applaudito) voleva piuttosto fare evolvere il regime cubano, salvando le sue conquiste sociali in tema di istruzione e sanità pubblica. Nel 1998 Giovanni Paolo II aveva già denunciato proprio in Germania, dove poi si sarebbe recato alla Porta di Brandenburgo a Berlino, il nuovo pericolo incombente dopo la caduta delle dittature sovietiche: “L’ideologia capitalistica radicale”. Il neoliberismo senza freni, che nel primo decennio del nuovo millennio avrebbe portato alla grande crisi finanziaria ed economica dell’Occidente.

E Dio entrò all’Avana fu il titolo che lo scrittore Manuel Vazquez Montalbán mise al suo libro, che descrivevano l’atmosfera speciale di quelle giornate del Papa polacco a Cuba. La vigilia del suo arrivo fu il primo Natale celebrato come giorno festivo. E da allora il disgelo non si fermò più. Wojtyla d’altronde non era venuto per trattare soltanto questioni bilaterali. Il suo orizzonte era più vasto. Non a caso durante la grande messa in Piazza della Rivoluzione, dove per ventiquattr’ore si fronteggiarono il volto del Che e il Sacro Cuore di Gesù, Giovanni Paolo II – condannando l’ateismo di Stato e il “falso conflitto tra la fede in Dio e l’amore e il servizio alla Patria” –sottolineava anche con forza l’esigenza di “coniugare libertà e giustizia sociale, libertà e solidarietà”.

Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba, fu il motto che Wojtyla coniò lasciando l’Isola. Un invito alla democratizzazione e al tempo stesso alla fine dell’embargo statunitense. La visita rappresentò un successo per Wojtyla e un successo per Fidel. Il vecchio rivoluzionario non si era sbagliato, invitando il Papa nel 1996 a visitare Cuba. Appartengono a un altro clima, a un’altra stagione i successivi incontri di Castro con Benedetto XVI e Francesco. Nel 2012 Castro è già costretto alla lontananza dalla leadership politica. Con Papa Ratzinger prende un caffè durato oltre mezz’ora. Il pontefice tedesco si dirà poi “commosso” per essersi trovato di fronte a un uomo che si pone domande sull’esistenza anche se non esce dal suo schema filosofico. Castro chiede libri e Ratzinger gliene manderà due, fra cui la sua Introduzione al Cristianesimo (questo sarà inoltre il viaggio in cui Benedetto XVI maturerà la decisione di dimettersi).

Francesco nel 2015, andando a incontrare il vecchio leader vestito ormai di una triste tuta sportiva blu, si rammenterà degli interessi di Fidel e gli porterà una serie di libri oltre la sua enciclica verde Laudato si’. I due latinoamericani si fermarono a parlare per un’ora di tutto, a partire dalla comune formazione gesuitica. Poi papa Bergoglio afferrò la mano di Fidel, esclamando: “Prima o poi regalamelo un Padrenostro”.

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