Ho coltivato un diverso parere su Fidel Castro da quando, nel lontano 1979, Ralf Dahrendorf (lord Dahrendorf, presidente della London School e massimo esponente del pensiero liberale di fine Novecento) ci propose – intervistato per Laterza dall’amico sociologo del diritto Vincenzo Ferrari – una prospettiva del tutto inaspettata: “Cuba è stato il più tragico degli errori fatti dagli Stati Uniti. Invece di seguire la loro stessa tradizione – perché la rivoluzione cubana era tipicamente americana – invece di vedere in Fidel Castro un nuovo Giorgio Washington, gli Stati Uniti hanno deciso di qualificare Castro come un nuovo Lenin. Ne stiamo ancora pagando il prezzo”.
La mia personale (e sommessa) opinione è che, anche in questo caso, siamo stati in presenza di due cortocircuiti dell’intelligenza che hanno creato varchi pericolosissimi alla tracotanza: la tradizionale “dottrina di Monroe”, per cui il continente americano è il “giardino di casa” degli Usa, la catastrofe della Guerra Fredda, che ha stravolto nella paranoia del manicheismo complottista ogni analisi degli accadimenti.
Cerchiamo di ricordare cosa era la Cuba al tempo in cui un manipolo di barbudos, asserragliati sulla Sierra Maestra, combattevano una guerriglia dal chiaro valore simbolico. L’isola languiva sotto il tallone di un regime fantoccio, in cui l’ennesimo caudillo caraibico – il corrotto Fulgencio Batista – si reggeva al potere (formale) come cane da guardia degli interessi rapaci della grande malavita nordamericana. Nella logica perversa delle colonizzazioni post-coloniali, per cui si continuava a prelevare predatoriamente tutte le risorse dei popoli del Terzo Mondo dietro il paravento di governi locali asserviti.
Qualche anno prima un presidente americano aveva teorizzato tale politica bollando un altro cacicco caraibico – François Papà Doc Duvalier, presidente di Haiti – con le celebri parole “è un figlio di puttana, ma è il MIO figlio di puttana”.
Contro l’ennesimo figlio di puttana, carceriere e grassatore del proprio popolo per conto terzi, combattevano i libertari cubani. Ispirati dal classico format alla Simon Bolivar “della rivoluzione romantica che travalica le Ande”. Comunisti? Come potevano esserlo molti ragazzi delle brigate partigiane, spesso saliti in montagna per sottrarsi alla leva di Salò del generale Graziani. Tanto che è ormai leggendario come il numero due dei barbudos – Ernesto “Che” Guevara – avesse problemi a distinguere il termine “economista” da “comunista”.
La tragedia fu che un movimento di liberazione, paventato come sovversivo dell’Occidente da chi nutriva categorie maccartiste e da Guerra fredda, osteggiato oltre il limite dell’esecrazione da chi si sentiva minacciato nei propri interessi da capitalismo predatorio, venne spinto dalla parte opposta. L’errore di cui pagammo il prezzo per mezzo secolo denunciato da Dahrendorf. Il tragico errore che il fronte occidentale continua a commettere: predicare libertà e democrazia e poi parteggiare per i guardiani dei dis-valori contrari: si tratti dei collusi con i mafiosi come dei generali massacratori che spazzano via gli studenti egiziani scesi in piazza Tahir innalzando i vessilli della libertà e della democrazia (dopo che il presidente Obama, in un meraviglioso quanto subito accantonato discorso all’Università del Cairo, aveva promesso loro sostegno politico e aiuti materiali).
In questo andazzo Castro è una delle grandi vittime dell’ondata di pensiero imbarbarito che ha cancellato le promesse illuministiche della nostra civiltà. Una devastazione morale e materiale che oggi Donald Trump assicura di voler rimettere al lavoro.
Attendiamoci altri sfracelli da questa onda bieca e canaglia di ritorno, che incanaglisce anche chi ne è vittima. Come probabilmente è successo per il regime cubano assediato. Con le relative macchie che insozzano anche la lunga biografia di un Washington mancato.