I sondaggi mostrano il leader del centrosinistra prossimo alla sconfitta nel voto per approvare le riforme costituzionali del prossimo mese.
Articolo originale di Stefanie Kirchgaessner apparso su The Guardian il 17 Novembre 2016
Traduzione di Noemi Alemanni e Gaia Restivo per ItaliaDallEstero.info
Il premier italiano, Matteo Renzi, ha ribadito la promessa di dimettersi in caso dovesse perdere l’imminente referendum, affermando che spetterà a qualcun’altro farsi carico del “sistema decrepito” che rimarrà in caso di sconfitta.
L’impegno a lasciare la poltrona di Palazzo Chigi giunge proprio quando i sondaggi danno il leader di centrosinistra destinato alla sconfitta il 4 dicembre prossimo e sottolineano come le strategie messe in atto nelle ultime settimane per accaparrarsi il voto degli italiani abbiano fatto ben poco per convincerli a sostenere le riforme costituzionali promosse da Renzi.
“Se i cittadini votano no e vogliono un sistema che è quello decrepito che non funziona, io non posso essere quello che si mette d’accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo” ha detto Renzi giovedì nel corso di un’intervista a RTL.
All’inizio della campagna Renzi aveva detto che se avesse perso si sarebbe fatto da parte, ma nelle ultime settimane aveva dato l’impressione di volersi allontanare dalla strategia o-la-va-o-la-spacca nel tentativo di spersonalizzare la campagna e ribadire che il voto non lo riguardasse in prima persona. Giovedì è tornato al punto di partenza. Sono stati fatti i nomi di Pier Carlo Padoan, Ministro delle finanze,e di Dario Franceschini, Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, quali possibili premier ad interim.
“Alla fine, Renzi rimarrà il leader del più grande partito presente in parlamento, per cui è probabile che si finisca per avere un signor Nessuno come premier” ha affermato l’analista politico Wolfango Piccoli di Teneo Intelligence. Mentre Renzi tentava di spaventare gli elettori suggerendo che la vittoria del No avrebbe gettato il governo nel caos, ha detto Piccoli, la strategia non è riuscita ad influenzare più di tanto tanto l’elettorato, giacché gli italiani non sono particolarmente spaventati dalla prospettiva dell’instabilità politica. “Si tratta di un esercizio piuttosto sterile” ha detto Piccoli. Probabilmente, i prossimi passi dipenderanno in parte dal margine di sconfitta o di vittoria, ha aggiunto.
Il voto del 4 dicembre è incentrato su alcune complicate modifiche normative alla costituzione italiana, che effettivamente consentirebbero a qualsiasi partito di maggioranza di far approvare leggi con maggiore facilità e di indebolire il potere del Senato, la camera alta del parlamento.
Gli oppositori delle riforme provengono un po’ da tutti gli schieramenti, avvicinando oppositori politici dell’estrema destra a tanti della sinistra, compresi alcuni tra le file del partito di Renzi, i quali ritengono che i cambiamento indebolirebbe pericolosamente il sistema italiano di controlli e contrappesi.
I sostenitori delle riforme sostengono invece che l’Italia debba attivarsi per facilitare finalmente l’approvazione delle leggi dopo decenni in cui il parlamento si è mostrato incapace di approvare importanti e necessarie riforme politiche ed economiche.
Oltre una ventina di sondaggi pubblicati dalla fine di ottobre ad oggi hanno mostrato un vantaggio del No di circa 5 punti rispetto al Sì. Ma gli stessi mostrano anche come circa un quarto dei votanti sia ancora indeciso, un dato legato molto probabilmente alla natura complessa del referendum e all’apatia dei votanti nei confronti del destino politico di Renzi.
Anche quando Renzi ha faticato a far progressi con gli elettori, i legislatori del suo governo hanno puntato il dito contro i social media tacciati di essere controllati dal Movimento Cinque Stelle (M5S), il partito anti-establishment e populista alla guida della campagna per il no, che accusano di propagandare notizie false e di ridicolizzare i politici a ridosso del voto.
Alessia Morani, parlamentare del Partito Democratico renziano, li ha paragonati a delle “macchine spara fango”.
Un consigliere di punta descritto come il “braccio destro” di Renzi, Luca Lotti, ha presentato una querela – pare per diffamazione, sebbene il contenzioso non fosse esplicitamente indicato – contro un utente Twitter con un profilo apparentemente falso, che avrebbe accusato Lotti di essere collegato al crimine organizzato. Lotti nega l’accusa con forza.
Un pubblico ministero di Firenze, città di cui Renzi è stato sindaco, ha preso in carico il caso per determinare se l’utente di Twitter – che posta col nome di Beatrice de Maio – sia un affiliato pagato da un altro partito politico.
“Lotti ha intrapreso questa azione perché non è tollerabile che il Vice Segretario Generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sia accusato di far parte della mafia. Il prossimo passo sta ora al PM, che determinerà chi si nasconde dietro il nome di Beatrice di Maio” ha detto Federico Bagattini, avvocato di Lotti. Bagattini si è rifiutato di rilasciare la denuncia al Guardian.
Il caso, di cui il quotidiano La Stampa ha riportato la notizia per primo, ha destato preoccupazione nella stampa. Un articolo de Il Fatto Quotidiano ha sollevato il dubbio che un caso del genere possa mettere a rischio la libertà di parola degli avversari del governo, che rischiavano di abusare del proprio potere, anche se suddetti avversari fossero degli internet troll legati in qualche modo ad un partito d’opposizione.
Un esponente dei Cinque Stelle ha fatto a pezzi il pezzo su La Stampa, sostenendo come la presunta accusa di illecito nei confronti del M5S sia stata data già praticamente per certa dalla stampa “corrotta”.