Emma oggi è una bambina di sei anni e mezzo e forse è in grado di parlare solo l’arabo e incapace di riconoscere il volto di sua madre. Nel 2011 Emma è stata rapita da suo padre, Mohamed Kharat, e in questi cinque lunghi anni Alice Rossini non è riuscita ad ottenere che qualche fotografia e poche brevissime telefonate. “Non posso abbandonarla, a darmi la forza di andare avanti è il cuore di mamma”, racconta la 36enne che vive in un paese vicino a Vimercate, in provincia di Monza. “Ci siamo sentiti completamente abbandonati dalle istituzioni”. La voce di Roberto Cancedda, il marito 32enne della cugina di Alice, è triste ma determinata. “Chi mi ha portato a casa una fotografia di mia figlia o qualche informazione in più – continua la madre – sono stati programmi televisivi come Chi l’ha visto? o Le Iene, non le istituzioni”. In questi cinque anni, “non ho lottato solo contro il mio ex marito, ma anche contro il silenzio del ministero degli Esteri. Mi sono sentita abbandonata, ma ora questo poco importa: questa è la loro ultima occasione per farci capire che vogliono aiutarmi a riabbracciare Emma”.

Da quando la piccola è stata rapita, Alice si è trasferita a casa della cugina per riuscire a superare il trauma. “Fino ad oggi non siamo stati tutelati, ma a noi questo non interessa: l’unica cosa importante, è che il governo italiano non perda la sua ultima occasione per farsi rispettare e aiutarci a portare a casa Emma”.

L’ultima occasione di cui Roberto Cancedda parla, è il fatto che il padre della bambina sia stato finalmente individuato in Turchia, dove l’Interpol lo ha fermato in esecuzione del mandato di arresto internazionale del tribunale di Monza. Il 40enne siriano, infatti, era stato condannato a dieci anni per sequestro di persona e sottrazione di minore. “È un caso senza precedenti – conferma l’avvocato della famiglia, Luca Zita – visto che gli è stato riconosciuto sia la sottrazione di minore sia la condanna penale per sequestro di persona”. Peccato che non si abbia ancora la certezza che l’uomo sarà estradato in Italia perché il governo di Ankara potrebbe ritenere la condanna a dieci anni non sufficiente. “Il rischio è che sia rimandato nel suo Paese d’origine e che quindi potemmo perdere nuovamente le tracce della bambina – continua Zita –  ma l’obbligo di estradizione è previsto sia dalla convenzione dell’Aja sia dal Trattato di Parigi. Se la Turchia lo lasciasse andare in Siria, non sarebbe stato il governo di Ankara a non avere fatto abbastanza, ma l’Italia”.

Tra i messaggi che Alice ha ricevuto in questi cinque anni dal marito, uno le torna spesso alla mente: “Rivedrai tua figlia solo in una bara bianca”. Si erano conosciuti a una festa di Capodanno, a casa di amici in comune. Che quell’uomo fosse violento, era stato scoperto solo dopo il matrimonio. “L’ultima volta, mi ha picchiato davanti a nostra figlia – ricorda – è stato allora che ho deciso di andarmene”. Mohamed non aveva preso bene la richiesta di divorzio. “Per lui il fatto che una donna lasci il marito è un affronto gravissimo. Così ha cercato un modo per punirmi: uccidermi non lo avrebbe fatto godere come vedermi soffrire portandomi via la cosa più importante che avevo”.

Era una mattina d’autunno quando Mohamed è passato a casa di Alice a prendere Emma, quella bambina di 20 mesi che avevano tanto faticato ad avere. A seguito della separazione, era stato stabilito che il 40enne potesse vedere la bimba una volta la settimana. “Era il 17 dicembre 2011. Non scorderò mai quella data: Mohamed era venuto a casa mia per portare i regali di Natale per me e per mia mamma – racconta Alice – in quei mesi era stato un padre modello. Poi, il giorno dopo, mi ha portato via Emma”. Perché Mohamed, “è riuscito a volare verso la Grecia con un passaporto scaduto”, per poi rifugiarsi in Turchia e quaranta giorni in Egitto. Meta finale: il suo paese d’origine, la Siria.

“Quale padre porterebbe suo figlio in un territorio di guerra?”, non si dà pace Concedda. D’altro canto, quale padre chiederebbe all’ex moglie “un riscatto di 300mila euro per riavere indietro sua figlia?”, continua Alice. Perché Mohamed, racconta, le ha chiesto diverse volte di pagare un riscatto, anche attraverso l’aiuto di uno zio che vive a Concorezzo, nel Monzese. “Ma questi soldi non li abbiamo. Io sono un impiegato, mentre Alice si occupa di pulizie – aggiunge il cugino della donna – Per noi, anche solo pensare di gestire una somma del genere non è facile. Speravamo in un aiuto dalle istituzioni. E invece, solo silenzio”.

Il loro avvocato lavora gratis. Nessun compenso neppure per l’investigatore privato che segue il caso, mentre i cittadini di Vimercate li hanno aiutati raccogliendo fondi con fiaccolate e autofinanziamenti. Dal canto istituzionale, invece, “un organo non sapeva cosa faceva l’altro” racconta l’avvocato della donna, precisando di non avere mai visto un coordinamento così problematico tra istituzioni italiane e organi internazionali.

 

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