Una settimana dopo, il 7 maggio, la piccola Ariel viene trasferita a Roma, al Bambino Gesù. Il 24 maggio viene sottoposta a trapianto di midollo, donato dalla mamma. Dopo poche settimane, il 17 giugno, viene dimessa. “L’esperienza più dura – spiega il papà di Ariel – è stata la rianimazione. Ma non ci ha sfiorato mai il pensiero che qualcosa sarebbe andato storto. Merito di Locatelli e della sua équipe, che sono stati sempre rassicuranti”. Gli scienziati del Bambino Gesù prelevano i linfociti della mamma della piccola Ariel e li manipolano geneticamente, per favorire il recupero della cosiddetta immunità adattiva, che protegge dalle infezioni virali o fungine. Può, però, accadere che queste cellule aggrediscano l’organismo del ricevente. È una delle maggiori cause di morte in caso di trapianto, ed è una delle ragioni per cui spesso si evita questa procedura in casi di malattie che non mettono a immediato rischio la sopravvivenza del paziente. Ma per la patologia di Ariel, la Scid, non c’è tempo da perdere. “I pazienti con forme gravi di immunodeficienza primitiva hanno bisogno di essere trapiantati velocemente – spiega a IlFattoquotidiano.it Franco Locatelli -. Si tratta, infatti, di patologie incompatibili con la vita in assenza di un trapianto. Per questo, la scelta spesso ricade su uno dei genitori, uguali al 50% dal punto di vista immunogenetico. Questo comporta, però, il rischio di aggressione da parte delle cellule del donatore”.
La tecnica messa a punto dagli scienziati del Bambino Gesù – che hanno coordinato un team formato da numerosi centri europei e statunitensi – permette, adesso, di combattere e sconfiggere questa possibile aggressione. Il risultato dei ricercatori dell’ospedale pediatrico della Santa Sede è stato ottenuto grazie all’utilizzo di un gene suicida, denominato “inducible Caspase 9 (iC9)”, in grado di tenere sotto controllo eventuali infezioni dovute al trapianto. Si tratta della prima sperimentazione al mondo di questo genere. “È una tecnica di terapia genica – chiarisce Locatelli -. Se tutto procede senza complicazioni, il gene suicida resta dormiente. In caso di aggressione da parte delle cellule del donatore, invece, basta iniettare nel paziente un agente di per sé inerte, l’AP1903, ma in grado di attivare il gene suicida, che scatena la cosiddetta cascata della caspasi. In pratica – chiarisce Locatelli -, spingiamo al suicidio più del 90% delle cellule trapiantate”.