Pornografo gay contro pornografo gay per conquistare una pornostar gay, e alla fine è un lago di sangue. Stupisce lo strano oggetto King Cobra, film di chiusura del 34esimo Torino Film Festival, che vede tra i protagonisti James Franco e Christian Slater. Storia vera della concorrenza che si creò a metà anni duemila tra due artigianali case di produzione porno attorno alla giovanissima star Sean Lockhart, nome d’arte Brent Corrigan. Sean/Brent, interpretato da Garrett Clayton, celebre per un paio di teen movie prodotti da Disney Channel, è l’oggetto del desiderio di Stephen, titolare della Cobra Video.
Produttore self made man che gira provini in casa, li monta al pc, li mette online, e poi se il caso vuole s’innamora pure della sua nuova scoperta ospitandola nella propria villetta e diventandone l’amante. Stavolta il pigmalione Stephen esercita tutto il suo “potere sul giovane Brent, blindandolo con un contrattino per dieci film. Il ragazzo dapprima spaesato e accondiscendente appena annusa aria di soldi, spulcia i documenti nei cassetti del produttore scovando ricavi di centinaia di migliaia di dollari e chiede di guadagnare di più. Dall’altro lato in King Cobra seguiamo le vicende della Viper Boyz, diretta dall’instabile Joe (Franco) che ha come stella l’aitante Harlow (il Keegan Allen di Pretty Little Liars). Amanti anch’essi, vivono un po’ sopra le loro possibilità finanziarie derivanti dai guadagni dei film porno che circolano a pagamento online. Tutta la loro avidità e follia si sprigiona quando vengono a conoscenza di Brent e cercano di arruolarlo nella loro factory. Giocato su cromatismi patinati da messa in scena del porno stesso, King Cobra offre diverse sequenze soft core con Franco che si produce in almeno un baio di baci con la lingua dati al fidanzato Harlow e in un altro paio di sequenza dove gode il privilegio di una fellatio fuori vista e di un rapporto sessuale “passivo”, anche qui senza veli.
Ma non è la prurigine che scaturisce dalla visione a colpire lo spettatore, bensì il gorgo mefitico della spietata concorrenza tra i due produttori che senza esclusione di colpi vogliono tutto per sé il “fenomeno” Brent. In questo King Cobra offre semmai un’intelaiatura da thriller che sfocia nel sanguinario finale, tralasciando per metà film ogni tipo di allusione al sesso o alle bellezze dei “beefcake” in scena. Certo, leggendo i tabloid Usa di qualche mese fa pareva di essere di fronte a qualcosa di ben più visivamente audace, ma il regista e sceneggiatore Justin Kelly, che già aveva diretto Franco in I’m Michael, cerca di mantenere ben saldo contenuto e contenitore sul versante del non proibito, a favore di un racconto di genere che rimane molto sulla superficie dei caratteri e delle vicende trattate.
A Pugni chiusi, il documentario biografico su Lou Castel diretto da Pierpaolo De Sanctis, nella sezione TFFDoc 2016, non poteva che essere questa lunga inquadratura, macchina da presa a cinquanta centimetri da terra, della figura intera e di spalle del grandioso attore di origine svedese oggi 73enne mentre passeggia tra vuoti e desolati paesaggi di periferia. Irriducibilmente ribelle, protagonista del folgorante esordio di Bellocchio, I Pugni in tasca (1965), Castel ha continuato a recitare per mezzo secolo improntando il suo “lavoro” sull’impegno politico e civile. Una rivoluzione performativa e culturale pre ’68 che svanisce di fronte alla commercializzazione del mezzo cinema e alla vita borghese di colleghi attori e registi. Solo che Castel ha sempre guardato quel mestiere, e il mondo, da un’angolazione non omologabile e distinta. Eccolo autoimporsi la castità prima di girare Francesco d’Assisi con la Cavani, cercare di divincolarsi tra Stanislavski e la trance in mezzo alle crisi epilettiche del protagonista de I pugni in tasca; il voler farsi per davvero frustare negli western di Canevari (Matalo!) e Lizzani (Requiescant); l’idea che un attore debba essere un “alleato” del regista nel fare pulsare il personaggio. Nel 1969 diventa membro del gruppo maoista Servire il popolo, nel ’72 viene espulso dall’Italia dove tornerà due anni dopo, “se non cambi il mondo facendo l’attore, buonanotte”, andava dicendo. Il racconto in prima persona di Castel, ciuffo bianco e impermeabile sdrucito che lo fanno sembrare Brando in Ultimo Tango passa anche dalle delusioni, doveva essere “l’assistente dell’assistente dell’assistente alla regia di 8 e mezzo di Fellini, ma anche dalle interpretazioni con Fassbinder e Wenders. “Non posso adattarmi alla realtà”, ripeteva da trentenne, e ripete ancora oggi Lou. “Anche nei film più brutti e strampalati ho cercato di esprimere qualcosa, un particolare, una sciocchezza, non volevo farmi cancellare completamente, volevo esistere”. Grazie Lou.