Moltissimi giuslavoristi sono contrari alla riforma oggetto del referendum del 4 dicembre prossimo, e in soli 3 giorni sono state 108 le firme raccolte dai giuslavoristi per il No. Pubblichiamo qui i passaggi principali del loro comunicato, che esprime un giudizio negativo sulla riforma sia in generale che per le specificità legate alla materia del diritto del lavoro.
In linea generale evidenziamo che la riforma realizza un forte e pericoloso accentramento dei poteri, introducendo nel contempo innovazioni tanto discutibili quanto confuse.
Voteremo No perché la formazione del Senato prevista è priva di senso. Avremmo infatti un Senato composto, a rotazione, da presidenti di regione, consiglieri regionali e sindaci appartenenti a diversi schieramenti politici. Non quindi un Senato in rappresentanza unitaria dei territori, come nel sistema tedesco. E neppure un Senato dotato di una forte legittimazione politico-territoriale come nel modello Usa. Ma una improbabile sommatoria di soggetti diversi, nessuno dei quali potrà vantare una vera rappresentanza territoriale e neppure una trasparente legittimazione politica.
Voteremo No perché è del tutto inaccettabile lo scambio che si realizza tra Stato e regioni (a statuto ordinario). Le regioni vengono private di essenziali funzioni politico-legislative, offrendosi loro la consolazione di uno pseudo “Senato delle regioni”. Con specifico riferimento ai temi lavoristici sottolineiamo che le novità introdotte non sono affatto convincenti. In particolare:
Voteremo No perché l’abolizione della competenza concorrente di Stato e regioni nella materia della tutela e sicurezza del lavoro avrebbe l’effetto di riportare tutte le funzioni ora svolte dai Servizi per l’impiego regionali o provinciali alla gestione del Ministero del lavoro. Tale modifica comporterebbe un notevole dispendio di risorse per il trasferimento e la riorganizzazione delle funzioni che, in assenza di uno stanziamento adeguato di fondi, non ne garantisce in alcun modo un miglioramento qualitativo. I servizi per l’impiego sono stati trasferiti alle Regioni e alle province nel 1997 proprio a causa delle gravi inefficienze a cui aveva dato luogo la gestione ministeriale e non vi è alcuna ragione per ritenere che il ritorno all’amministrazione centrale possa oggi di per sé migliorare la situazione. Si ripropone inoltre il vizio d’origine del sistema, costituito dalla separazione tra politiche per il lavoro, che tornerebbero alla competenza centrale, e formazione professionale, che resterebbe di competenza regionale.
Voteremo No anche perché l’inserimento in Costituzione di un esplicito riferimento alle “politiche attive del lavoro” tra le competenze dello Stato, è solo apparentemente innovativo, in quanto la materia rientrerebbe comunque nella più ampia definizione di tutela e sicurezza del lavoro. Tale inserimento si realizza, inoltre, in un contesto caratterizzato dalla sempre più marcata sottoposizione dei cittadini a vincoli e condizioni strettissimi, la cui legittimità, sotto il profilo del rispetto del diritto al lavoro e della libertà di scegliere un’occupazione corrispondente alle proprie possibilità e aspirazioni garantiti dall’art. 4 della Costituzione e dall’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è oggi fortemente discussa.
Voteremo No perché il cosiddetto voto a data certa, imponendo al parlamento di pronunciarsi in via definitiva entro settanta giorni, limita fortemente la possibilità per le competenti Commissioni della Camera di svolgere le indagini, le ricerche e l’attività istruttoria (audizioni delle organizzazioni sindacali, degli enti previdenziali, etc.) che spesso sono necessarie per avere piena contezza della situazione che si intende regolare e degli effetti che la nuova legge può produrre; si limitano in tal modo la possibilità delle “formazioni sociali” di partecipare alla vita politica economica e sociale del Paese, come previsto dall’art. 3, comma secondo, della Costituzione.
Voteremo No anche perché la riforma costituzionale nulla innova in materia di previdenza sociale, mentre il ritorno della previdenza complementare e integrativa alla competenza esclusiva statale, senz’altro condivisibile, ha un effetto praticamente nullo: di fatto, anche dopo il 2001, la materia, che con la precedente riforma del Titolo V della Costituzione è stata discutibilmente attribuita alla competenza concorrente di Stato e Regioni, ha continuato a essere regolata esclusivamente con leggi dello Stato, legittimato a intervenire sulla base dell’attinenza della materia sia all’ordinamento civile, sia alla tutela del risparmio.
Voteremo No anche perché l’attribuzione allo Stato della competenza a emanare disposizioni generali e comuni per la tutela della salute e per le politiche sociali introduce un elemento di incertezza ulteriore circa l’esatto riparto di competenze (dovendosi stabilire cosa si intenda per generali e comuni) ed è foriera di un contenzioso tra Stato e regioni.
Infine, voteremo No anche perché nel riscrivere la clausola di supremazia, mediante la quale lo Stato può sostituirsi alle regioni e agli enti locali, si fa un generico riferimento alla tutela dell’unità giuridica ed economica dello Stato, omettendo lo specifico riferimento, attualmente previsto, alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti di diritti civili e sociali. Ciò se in linea generale non impedisce l’intervento dello Stato su questo aspetto, d’altra parte conferma la mancanza di attenzione dell’attuale legislatore costituente a questa fondamentale istanza.
Qui i firmatari dell’appello e qui il testo integrale del documento.