#Squadramobile #sco catturato pericoloso latitante Marcello Pesce a #Rosarno RC boss ‘ndrangheta ricercato per associazione stampo mafioso
— Polizia di Stato (@poliziadistato) December 1, 2016
Pesce era latitante dal 2010, quando era riuscito a sfuggire all’ordinanza di custodia cautelare dell’operazione “All Inside” da cui è nato un processo al termine del quale, in appello, è stato condannato a 16 anni e 2 mesi per associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia. Figlio e nipote rispettivamente di Rocco e Giuseppe Pesce, il latitante arrestato all’alba era inserito nell’elenco dei ricercati più pericolosi del Ministero dell’Interno. Ad annunciare la sua cattura un tweet della Polizia di Stato.
Capo indiscusso dell’omonima cosca operante a Rosarno e altrove, ritenuta tra le più agguerrite dell’intera ‘ndrangheta calabrese, Pesce annovera precedenti di polizia per associazione mafiosa, omicidio doloso e droga. Il suo nome compare negli atti giudiziari degli anni novanta, quando alcuni rapporti di polizia evidenziavano la sua sospetta appartenenza alla criminalità organizzata di Rosarno capeggiata allora dal boss Giuseppe Pesce, classe 1923, poi deceduto. Nel 2015, in considerazione dei possibili appoggi di cui egli poteva giovarsi in territorio estero, le ricerche sono state estese anche in ambito comunitario, attraverso l’emissione del Mandato di Arresto Europeo da parte della Corte di Appello di Reggio Calabria.
Negli anni ’90 fu coinvolto insieme all’ex capo della loggia P2 Licio Gelli nell’inchiesta su mafia, politica e massoneria avviata dall’allora procuratore di Palmi Agostino Cordova. I due, oltre a politici e presunti ‘ndranghetisti, furono poi assolti nel marzo del 1995 dai giudici del Tribunale di Palmi. L’inchiesta riguardava il presunto intreccio tra un’organizzazione dedita al traffico di droga con armi con il mondo politico ed affaristico con conseguente voto di scambio. Secondo l’accusa, le cosche Pesce-Pisano si erano federate tra di loro per gestire i traffici illeciti con uomini di fiducia che operavano in Toscana, Liguria, Lombardia, Marche, Emilia Romagna, Puglia, Campania e Calabria. A Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, c’era la base operativa e decisionale dell’ organizzazione. All’inchiesta avevano contribuito anche alcuni pentiti.