Di Claudia De Martino, ricercatrice Unimed
Il VII congresso di al-Fatah si è riunito lo scorso 30 novembre dopo anni di attese (non si teneva dal 2009) e con grandi aspettative da parte dell’opinione pubblica palestinese e internazionale. All’ordine del giorno vari punti qualificanti, tra cui l’istituzione della carica di vicepresidente del partito e la sua eventuale nomina, la discussione sul reintegro dei dissidenti come Mahmoud Dahlan, il rilancio della campagna “Palestina 194” che punta al riconoscimento della Palestina come 194esimo stato delle Nazioni Unite e, infine, la battaglia sempre all’ordine del giorno, da 70 anni a oggi, del rilancio della resistenza non-armata all’occupazione israeliana.
Già nella sua prima giornata, però, il congresso è sembrato tradire tutte le aspettative di rinnovamento, con un rinnovo della nomina ad Abu Mazen a capo del partito per acclamazione popolare: la sua riconferma è stata infatti preceduta da un lungo applauso degli oltre 1.300 delegati che partecipavano al congresso. E’ ovvio che, dunque, che Fatah abbia puntato su quello che una cronista Rai ha giustamente definito l’“usato garantito”, ovvero il protrarsi dello status quo pur di non creare faide interne tra le fazioni palestinesi.
Abu Mazen, al secolo Mahmud Abbas, è infatti attualmente a capo di tutte le istituzioni palestinesi: l’esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), l’Autorità nazionale palestinese e il principale partito politico. In pratica, con i suoi 81 anni è il perno dell’organizzazione politica e statuale palestinese e, dai segnali che emergono dal congresso in corso, pare sia destinato a rimanere tale, senza eredi e senza rivali.
Peccato, perché la Palestina avrebbe meritato di più dalle sue élites e questa sarebbe stata una buona occasione per esprimere una nuova visione sulla resistenza non-armata e sul futuro di una nazione che si definisce uno Stato senza averlo e che anzi vede rimandarsi indefinitivamente nel tempo la sua realizzazione.
La Palestina sembra, infatti, stia sprecando anche quest’occasione per imprimere un ricambio alla dirigenza che deve essere sia generazionale che strategico. Vi sono infatti alcuni fatti nuovi dei quali la Palestina deve necessariamente tenere conto: il primo è che tra i suoi delegati del congresso, per la prima volta quest’anno il 73% è costituito da residenti dei Territori occupati, il che vuol dire che la diaspora palestinese – costituita da oltre sette milioni di persone sparse in 30 Paesi, di cui la maggior parte negli Stati limitrofi di Giordania, Israele, Siria e Libano in ordine decrescente – conta sempre di meno a livello politico, mentre la dirigenza è selezionata tra i 4.750.000 Palestinesi della Cisgiordania a e Gaza.
Altro fattore di novità è il fatto che Fatah si presenti sempre più come un partito spaccato in molte correnti: i nazional-indipendentisti (ala capitanata dall’attuale Presidente Abu Mazen), che crede ancora nella possibilità di uno Stato palestinese indipendente, i filo-sunniti (rappresentati da Mahmoud Dahlan, affiliato e sostenuto dal cosiddetto “Quartetto arabo” di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania) che puntano sul “Piano arabo di pace” nel lungo periodo, ma soprattutto sul rilancio economico e il miglioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi nel breve, l’ala dei prigionieri (capitanata da Marwan Barghouti, in prigione dal 2002) che chiede di portare Israele all’Aya, di fronte alla Corte penale internazionale, e infine l’ala dei disillusi, che parlano apertamente di una situazione che si avvia a diventare quella dello “status quo +”, ovvero di un’Autorità nazionale palestinese che non solo non gode di vera sovranità, ma è sempre più dipendente economicamente da Israele e dalla comunità internazionale, contribuisce al mantenimento di un sistema di apartheid in Cisgiordania e per il futuro punta esclusivamente a un allentamento del blocco su Gaza.
Questo per guardare soltanto alle divisioni interne a Fatah, perché se si considera l’intera comunità politica palestinese, il suo frazionamento è molto maggiore, e i principali protagonisti- Hamas, la Jihad islamica, il Fronte Popolare per la liberazione della Palestina – non sembrano voler negoziare cessioni di potere in vista di una rinnovata unità nazionale, come aveva chiesto a gran voce la gioventù palestinese nel 2011, nell’ultimo grande movimento di piazza, durante la breve primavera araba palestinese e le marce per l’unità lanciate dal movimento “15 marzo”.
In sintesi, puntando sull’ “usato garantito”, Fatah ha voluto tranquillizzare l’Europa, gli Stati Uniti e Israele: tutto sarà come prima. L’Autorità nazionale palestinese continuerà, quindi, a cooperare sul fronte della sicurezza. Tuttavia non è chiaro a cosa aspiri veramente questa dirigenza ormai erosa da anni di permanenza al potere e di stallo dei negoziati di Oslo, incapace di affrontare un test elettorale come anche di esprimere alcuna visione politica alternativa alla gestione dell’esistente. Sembra che i Palestinesi abbiano perso l’ennesimo appuntamento con la storia.