“C’è un giudice a Berlino, peccato che il suo giudizio sia un po’ tardivo”. Con questa battuta il professor Marco Vitale, tra i firmatari del ricorso, commenta l’ordinanza con cui il Consiglio di Stato ha sospeso in via cautelare la circolare della Banca d’Italia che contiene le misure attuative per la trasformazione delle banche popolari in spa. “Si tratta di una grande vittoria – spiega Vitale – il cui impatto pratico sarà giocoforza limitato, poiché nel frattempo molte delle banche interessate dal provvedimento del governo si sono già trasformate in società per azioni”. Molte, ma non tutte: le assemblee di Popolare di Bari e Popolare di Sondrio sono già state convocate ma non si sono ancora svolte: “La soluzione migliore – dice Fausto Cappelli, uno degli avvocati che ha presentato ricorso – è rinviare le due assemblee. Dobbiamo aspettare la Corte costituzionale per avere certezze sul diritto di recesso e per dire ai soci come comportarsi”.
Infatti, l’ordinanza del Consiglio di Stato ha rinviato alla Corte Costituzionale la circolare di Bankitalia perché presenta “profili di non manifesta infondatezza” sotto il profilo della legittimità costituzionale in particolare per quanto riguarda la limitazione del diritto di recesso e “appare affetta da vizi derivati nella parte in cui disciplina l’esclusione del diritto al rimborso”. La Banca d’Italia, infatti, ha stabilito la sospensione a tempo indeterminato del diritto dei soci recedenti a ottenere il pagamento delle loro azioni al prezzo stabilito.
Qualora la Consulta dovesse ritenere incostituzionali le norme, gli effetti potrebbero essere molto rilevanti sotto il profilo economico-finanziario: “Guardando alla sola Banca popolare di Milano, il mancato pagamento del diritto di recesso esercitato dai soci potrebbe tradursi in un esborso di 400 milioni, senza considerare le richieste di risarcimento danni di chi ha deciso di vendere direttamente le azioni sul mercato a 0,28-0,30 euro, contro i 0,49 del prezzo di recesso”, dice Giovanni Bianchini, presidente di Lisippo, un’importante associazione di azionisti Bpm e tra i promotori del ricorso assieme all’Adusbef. E non finisce qui: “Anche i soci delle Popolari non quotate, come la Vicenza e Veneto Banca – dice Bianchini – potrebbero far valere il loro diritto e chiedere i danni alla Banca d’Italia. Bisognerà vedere più avanti gli effetti, ma ciò che è chiaro è che il governo ha scritto una legge coi piedi che rischia di tradursi in un boomerang”.
Il Consiglio di Stato ha dunque sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 del decreto convertito in legge il 24 marzo 2015 su due punti precisi: in primo luogo, nella parte in cui prevede che “il diritto al rimborso […] possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court) e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati e con previsione di un interesse corrispettivo”. E, in secondo luogo, “nella parte in cui attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità di tale esclusione, nella misura in cui detto potere viene attribuito anche in deroga a norme di legge”. Il problema qui è che a Via Nazionale viene attribuito “un potere di delegificazione in bianco, senza previa e puntuale indicazione, da parte del legislatore, delle norme legislative che possono essere derogate”. Sono questi i punti sui quali, per dirla con Bianchini, “il governo ha legiferato con i piedi”.
Quanto alla Banca d’Italia, il Consiglio di Stato ritiene che la circolare attuativa sia affetta da vizi laddove prescrive modifiche statutarie dirette a introdurre nello statuto “la clausola che attribuisce all’organo con funzione di supervisione strategica […] la facoltà di limitare o rinviare, in tutto e in parte, e senza limiti di tempo il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel CET1, anche in deroga a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge”. Inoltre, l’ordinanza individua “ulteriori vizi propri” nel fatto che in sostanza attribuisce al debitore (la banca) il potere di decidere l’esclusione del rimborso “finendo in tal modo per creare una irragionevole situazione di conflitto di interesse” e anche nel fatto che attribuisce alla società “il potere di introdurre deroghe a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge, dando così vita a un’inedita forma di delegificazione di fonte negoziale”. Infine, un ulteriore punto critico è rappresentato dalla previsione della circolare secondo la quale “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni da cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex popolare, di una partecipazione totalitaria o maggioritaria nella spa bancaria”. A proposito di questo, nell’ordinanza del Consiglio di Stato si legge che “la predetta limitazione risulta priva di base legislativa e appare, oltre che non necessaria per realizzare le finalità della riforma, foriera di una irragionevole disparità di trattamento tra i soci delle ex popolari (privati della possibilità di esercitare il controllo) e ogni altro soggetto che partecipi al capitale azionario (cui, invece, tale possibilità resta riconosciuta)”.
Insomma, si tratta di una sonora bocciatura per il governo e per la Banca d’Italia che mette a nudo tutti i limiti e tutta l’improvvisazione con la quale è stata fatta una riforma altresì necessaria e attesa da anni. Basti pensare ai danni prodotti dalla governance delle banche popolari, che ha garantito l’inamovibilità dei gruppi dirigenti, intrecci perversi di interessi, rapporti impropri con la politica e l’imprenditoria locale che hanno portato al collasso moltissime banche un tempo floride. I casi Vicenza, Etruria, Veneto Banca – per citare i principali – sono sotto gli occhi di tutti. Improvvisazione, fretta e forse anche “interessi particolari” di alcuni banchieri vicini al governo si sono tradotti in un pastrocchio legislativo che aggiunge ulteriore benzina all’incendio della crisi bancaria italiana. Chi pagherà i danni?