di Alessandra Argentiere
Mi è capitato di leggere un articolo pubblicato da Internazionale “In Argentina la psicoanalisi è così popolare che anche i detenuti vanno in analisi”. Ho pensato subito: “Beh, senza saperlo ho portato un po’ di Argentina in Molise”.
Lavoro, infatti, come psicologa per l’Azienda sanitaria regionale del Molise, in un presidio sanitario interno ai tre istituti penitenziari per adulti (uomini) della Regione. Essendo tre istituti differenti tra loro, per semplicità espositiva, prenderò ad esempio uno dei tre, quello in cui lavoro per più ore.
L’Istituto ha due sezioni per detenuti di media sicurezza, una di alta sicurezza, una di familiari di collaboratori di giustizia e una a custodia attenuata. Il mio lavoro è finalizzato all’assistenza psicologica dei detenuti.
Effettuo un colloquio di primo ingresso rivolto a tutti i nuovi arrivati. Cerco di comprendere la storia personale e clinica, di indagare la presenza di precedenti suicidari, l’eventuale stato di tossicodipendenza, le patologie psichiche e lo stato attuale. Il colloquio è orientato a comprendere la capacità di adattamento del soggetto rispetto alla realtà detentiva, per poter elaborare un’ipotesi di trattamento e valutare la necessità di un percorso terapeutico. Cerco di dare priorità ai detenuti che arrivando dalla libertà, solitamente si trovano in uno stato di confusione e labilità emotiva forti e che maggiormente beneficiano dell’incontro con una figura con cui poter parlare di sé e dell’esperienza in cui si trovano.
Il mio lavoro procede con colloqui individuali, rivolti a detenuti segnalati dall’istituzione o a coloro che, attraverso la cosiddetta “Domandina”, richiedono personalmente un colloquio con me.
Nel corso dei colloqui, valuto se seguire il paziente individualmente o attraverso una psicoterapia di gruppo, che è sicuramente un lavoro innovativo negli istituti penitenziari e, a mio parere, molto utile. Il dispositivo gruppale consente di contenere e trasformare i vissuti portati dai singoli individui, favorendo il cambiamento e la crescita e valorizzando le specificità di ognuno. L’evoluzione di uno dei membri diventa un forte elemento trasformativo per gli altri.
La mia proposta di avviare un gruppo di psicoterapia è stata accolta positivamente dall’istituzione e dai pazienti coinvolti – selezionati a seguito di alcuni colloqui individuali – che hanno accettato volentieri. Dopo qualche settimana dall’avvio del gruppo, ho ricevuto diverse richieste di poter essere inseriti al “corso di gruppo” da parte di altri detenuti. Nell’istituzione penitenziaria vengono attivati numerosi corsi (musica, canto, teatro, etc.), ai quali i detenuti possono richiedere di partecipare. Il gruppo terapeutico inizialmente veniva visto come uno dei tanti corsi a cui poter accedere facendo richiesta. Il proseguire del lavoro ha permesso la comprensione del dispositivo terapeutico gruppale, differente dai corsi, in quanto nessuna persona esterna può assistere e in cui “non si insegna nulla, ma si può imparare molto” (citazione di un paziente durante una seduta di gruppo).
Il mio lavoro non si esaurisce con i colloqui individuali e le sedute di gruppo, ma continua con la partecipazione e osservazione delle attività trattamentali. Nell’istituto sono presenti anche la scuola primaria, la secondaria di primo grado e due istituti superiori tecnici, quello agrario e quello alberghiero. Alcuni detenuti sono iscritti all’Università. Percorro i corridoi della scuola, parlo con i detenuti che entrano in classe, li vedo occupati nelle attività di laboratorio mentre cucinano o allestiscono la sala con i professori. Ascolto quali sono gli ingredienti delle ricette che preparano, vedo gli ortaggi che hanno appena raccolto e guardo i prodotti di legno realizzati al laboratorio di falegnameria.
C’è movimento nella ripetizione, gioia nella sofferenza.
Tra questi opposti e ambivalenze si orienta il mio lavoro, tra quelle mura può nascere un pensiero e un (ri)pensarsi.
@AArgentiere