Il futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba resta, nei giorni immediatamente successivi all’elezione di Donald Trump e alla morte di Fidel Castro, un’incognita. L’incognita non è però tale da cancellare i progressi fatti negli ultimi anni. Se, con ogni probabilità, la retorica – soprattutto da parte americana – è destinata a diventare più aspra, interessi economici e nuove condizioni politiche sembrano andare nel senso del rafforzamento dei processi di normalizzazione.

Ma andiamo per ordine. Barack Obama, nel dicembre 2014, ribaltò la politica americana degli ultimi cinquant’anni e iniziò un percorso di normalizzazione con l’Avana. Lo fece però attraverso ordini esecutivi che non necessitavano del passaggio per il Congresso a maggioranza repubblicana e dunque contrario ad ogni apertura nei confronti del vecchio nemico; e infatti il Congresso non fece nulla per cancellare l’embargo in vigore dal 1962. Per sua natura, l’ordine esecutivo di un presidente Usa può però essere revocato dal presidente successivo. E qui entra in gioco proprio Donald Trump.

Trump ha trascorsi piuttosto contraddittori nei suoi rapporti con Cuba. Come uomo d’affari, ha mostrato un’attitudine favorevole al ristabilimento dei legami commerciali. Emissari degli hotel di Trump visitarono Cuba nel 1998 alla ricerca di possibili alleanze. Nel 2015, come raccontato da Bloomberg, dirigenti della Trump Organization sono tornati a Cuba per esaminare le possibilità di costruire campi da golf. Con Trump candidato alla presidenza, le cose sono decisamente cambiate. In ottobre, durante un comizio in Florida, Trump ha definito l’intesa tra Barack Obama e Raul Castro del dicembre 2014 “un accordo a senso unico… che beneficia esclusivamente l’Avana”. Aggiungeva Trump: “Tutte le concessioni che Barack Obama ha fatto al regime di Castro sono avvenute per ordine esecutivo, e quindi possono essere revocate dal prossimo presidente. Ed è quello che io farò a meno che il regime di Castro venga incontro alle nostre richieste”.

Il presidente eletto non sembra aver cambiato idea. Subito dopo la morte di Fidel, Trump ha parlato di “un dittatore brutale che ha oppresso il suo popolo per sei decenni” e ha espresso la speranza che la scomparsa del Líder Maximo “segni un allontanamento dagli orrori sopportati per troppo tempo, e verso un futuro in cui il meraviglioso popolo cubano finalmente viva la libertà che esso merita”. Diversamente però che nel periodo delle primarie, non compare nelle ultime dichiarazioni di Trump alcun accenno a una possibile cancellazione degli ordini esecutivi di Obama. Cosa peraltro confermata da una tra le principali consigliere di Trump, Kellyanne Conway, che a Meet the Press di NBC ha spiegato che “nessuna decisione è ancora stata presa sugli ordini esecutivi di Obama”.

Su cosa fare nei confronti di Cuba pesano infatti considerazioni molto diverse. Da un lato non sembra che gli Stati Uniti abbiano ottenuto quello che speravano dall’intesa del dicembre 2014. L’intesa, lo ricordiamo, oltre a ristabilire rappresentanze diplomatiche e voli commerciali, dava la possibilità ad alcuni settori del mondo imprenditoriale americano – tra questi il turismo, l’high tech e l’agricoltura – di tornare a fare business con Cuba. Quella possibilità non si è davvero realizzata. “Il governo cubano non ha fatto quello che doveva per fornire il giusto contesto”, si è lamentato John Kavulich, dello U.S.-Cuba Trade and Economic Council. Secondo Kavulich, l’amministrazione Obama può continuare “a distribuire licenze, ma non succederà nulla fino a quando non ci sarà una vera apertura da parte cubana”.

La “prudenza” dell’Avana nei confronti della prevedibile invasione commerciale americana ha quindi deluso e indispettito chi, negli Stati Uniti, attendeva di più, molto di più, dalle aperture politiche di Obama. E’ quindi probabile che, nell’immediato, si assista a un cambiamento di tono da parte della nuova amministrazione americana – e del Congresso a maggioranza repubblicana. “La retorica dell’amministrazione Obama è stata conciliatoria e di sostanziale accettazione del regime di Castro. Il discorso diplomatico sarà molto diverso nei prossimi mesi”, ha osservato Ana Quintana, esperta di questioni cubane alla Heritage Foundation. Non sono soltanto le parole di Trump su Castro “brutale dittatore” a testimoniarlo. Senatori come Marco Rubio, Ted Cruz, Bob Menendez hanno pesantemente attaccato l’eredità politica di Fidel e hanno auspicato un deciso cambiamento di rotta nell’isola. Jeff Flake, repubblicano dell’Arizona, è stato categorico rispetto al prossimo futuro. “Non c’è da aspettare nulla dal governo cubano”, ha spiegato.

A parte i toni più accesi rispetto all’era Obama, è però improbabile che il nuovo governo statunitense prenda provvedimenti davvero drastici. Non è infatti questo che chiede il mondo degli affari USA. Sia pur deluso dalla prima fase di riapertura commerciale, il business americano si prepara a un futuro ben più redditizio. I governatori – tra l’altro repubblicani – del Texas, dell’Arkansas, dell’Arizona hanno guidato missioni a Cuba insieme alle proprie camere di commercio per firmare accordi e stabilire futuri contratti (soprattutto nei settori dell’agricoltura). La stessa cosa hanno fatto, autonomamente, imprese nei settori del turismo e dell’high tech, mentre con l’approvazione dello “U.S. Commercial air service” linee come American Airlines e Jet Blue hanno iniziato voli regolari tra gli Stati Uniti e l’Avana.

E’ possibile che tutto questo venga cancellato dalla nuova amministrazione? Con ogni probabilità, no. “Penso che la comunità d’affari americana si opporrebbe energicamente alla cancellazione delle innovazioni introdotte dal presidente Obama ed è decisamente a favore di un percorso verso la normalizzazione delle relazioni economiche e diplomatiche”, ha detto a NPR Jake Colvin, vice presidente del National Foreign Trade Council. Impossibile che le nuove tratte aeree vengano cancellate, dunque. Molto difficile che un presidente, che tra l’altro viene proprio dalla comunità degli affari americani, si contrapponga alle richieste ed esigenze del mondo da cui lui stesso proviene.

C’è, infine, un altro tema che suggerisce che la normalizzazione continuerà. L’allentamento dei limiti a viaggi e invio di denaro, stabilito da Obama, è particolarmente popolare in Florida, anche tra i rappresentanti più ferocemente anti-comunisti della comunità cubana. E’ del resto lo stesso orientamento di questa comunità a essere cambiato. Come ha raccontato un articolo della rivista The Atlantic, il numero di cubano-americani contrari agli accordi è sempre più esiguo. La maggioranza dei cubani arrivati in Florida tra il 1959 e il 1964 si oppone al ristabilimento di normali rapporti diplomatici. Ma il 65 per cento di chi ha lasciato Cuba tra il 1981 e il 1994 chiede il ristabilimento di quei rapporti. E la percentuale a favore della normalizzazione diventa dell’80 per cento tra quelli arrivati negli Stati Uniti tra il 1995 e il 2014. Sono numeri che Trump, e i repubblicani del Congresso, non potranno trascurare. E’ la stessa comunità cubana, per anni portatrice di un’avversione implacabile verso il regime della madre patria, a chiedere che il cammino verso la normalità continui.

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