È stato approvato una settimana fa, in Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, un emendamento alla manovra finanziaria per la riduzione delle accise sulla birra. Da 3,04 euro per ettolitro per grado Plato a 3,02: questa l’entità della misura prevista a favore della filiera brassicola. Uno scarto di 2 centesimi che comporterebbe risparmi per il settore nell’ordine dei 5 milioni di euro all’anno, e che ha già generato reazioni contrastanti tra gli addetti e le parti politiche.
Da una parte si dichiara soddisfatta la maggioranza, con il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta che parla di un “segnale a un settore in crescita” non escludendo nuovi interventi in occasione della seconda lettura in Senato della Legge di Bilancio. Le associazioni che raggruppano i produttori, come Assobirra e Unionbirrai, non si sbottonano ancora in attesa della pubblicazione ufficiale in Gazzetta della manovra.
Chiara Gagnarli, relatrice 5s alla Camera di un emendamento che chiedeva un intervento più deciso con una riduzione delle accise modulata su scaglioni di produzione, bolla invece la misura come un “mero contentino proprio per quella parte d’eccellenza della filiera brassicola rappresentata dai produttori di birra artigianale”. Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono firme importanti della rete: la riduzione contenuta delle accise prevista dall’emendamento rappresenterebbe, secondo l’autorevole e storico blogzine Cronache di Birra, una “sconfitta senza precedenti per tutto il comparto”, in particolar modo per i birrifici artigianali, per i quali i 2 centesimi in meno previsti dal governo sono una variazione trascurabile, “se non apparisse quasi offensiva”.
Di questi 4,8 milioni di euro di risparmio, non essendo stato previsto nessuno scaglionamento in base alla grandezza dell’impianto, i principali beneficiari risulterebbero invece i giganti del mercato: Birra Peroni srl ad esempio, con oltre 3 milioni di ettolitri immessi al consumo nel 2015, vedrebbe cancellate dal listino spese accise per quasi un milione di euro (stima ricavata partendo da un valore medio ed arbitrario di 14 gradi Plato, più o meno pari al 5% di contenuto alcoolico finale nel bicchiere). Al comparto della birra artigianale, quella galassia di microbirrifici e brewpub (674 secondo Assobirra, per una produzione 2015 di 438mila ettolitri) che hanno in ricercatezza, qualità e originalità le proprie stelle polari, finirebbero per lo sconto fiscale soltanto 122mila euro complessivi. Una cifra che non rappresenta nemmeno l’idea di un contributo ad un settore.
Siamo ancora sul piano della teoria, sia chiaro. L’emendamento, come ricordato, è rimbalzato in nuova lettura al Senato: qui le promesse di ulteriori interventi a favore dei piccoli e medi produttori dovranno concretizzarsi sul solco della strutturazione del mercato già disegnata in Parlamento, con la definizione di piccolo birrificio estesa agli impianti con produzioni inferiori ai 200mila ettolitri all’anno, e recependo finalmente una Direttiva Europea vecchia di 25 anni, la 92/83, che proprio a favore dei birrifici sotto quelle dimensioni suggeriva agli Stati membri una riduzione proporzionale delle accise. Di conseguenza ad oggi negli altri paesi Ue la pressione fiscale sulla pinta è sensibilmente più bassa: con 619 milioni di euro i produttori italiani pagano in valore assoluto più accise di austriaci, cechi e belgi messi assieme, e poco meno dei tedeschi, i quali però vantano un volume produttivo oltre sei volte quello di casa nostra.
Difficilmente una politica fiscale può riuscire nell’intento non richiesto di definire un settore e i suoi segmenti, quando non ci sia chiarezza al suo interno: se non solo in Italia ma in genere nell’intero panorama mondiale di produttori e soprattutto consumatori si dibatte ancora sulla definizione di birra artigianale non basterà un intervento di taglio delle imposte o un regolamento ministeriale ad assegnare le patenti di identità ad un movimento assai dinamico e fluido. Quel che è certo è che in Italia si beve poca, pochissima birra: assieme alla Francia, guarda caso un altro produttore d’eccellenza di vino, siamo al fanalino di coda per consumo pro capite, con 30 litri all’anno, di una classifica guidata da paesi che vantano una lunga e onorata tradizione brassicola, quali Repubblica Ceca, Germania e Austria. Salvo poi superare di gran lunga queste stesse realtà nel numero di micro birrifici: ne abbiamo tre volte più dei cechi, due della Spagna (che però produce il 250% in più di noi), e praticamente lo stesso numero della Germania. Un’offerta disgregata, sminuzzata, con il rischio reale di passare sul palcoscenico di un bancone più per effimero spirito di testimonianza che con l’intento di fare bene nel tempo (guardatevi su microbirrifici.org l’elenco dei birrifici chiusi negli ultimi anni o con produzione sospesa, un’Apocalisse di attività nate nello spazio di una pinta e poi svanite).
Dal 2012 al 2015 abbiamo registrato un aumento nel numero dei micro birrifici del 60%, da 407 a 674; eppure occupazione, produzione e consumi sono rimasti più o meno invariati. Siamo forse giunti a una saturazione dell’offerta? Se così fosse, toccherà al mercato il compito di ridefinire gli spazi, gli attori e le identità. E una rimodulazione del sistema delle accise, da armonizzare ai livelli comunitari, aiuterà ad accompagnare e facilitare il percorso delle realtà di eccellenza della birra italiana.