1. Per una riforma così corposa occorreva un potere costituente: 47 articoli, più di quanto non si fosse fatto in quasi 70 anni: non era opportuno che gli elettori si esprimessero preventivamente su un eventuale programma di modifica costituzionale, nominando un ente ad acta? E non basta dire che il referendum sanerà questo deficit, poiché la democrazia è stabilire assieme l’agenda della politica, non ratificarla o bocciarla ex post.
2. Il premier doveva passare per le urne: è fin troppo noto che l’espressione ‘premier non eletto’ crea qualche imbarazzo poiché il Presidente del Consiglio non viene eletto ma incaricato dal Presidente della Repubblica e poi deve ottenere la fiducia in Parlamento. Tuttavia, l’espressione è corrente (anche nel lessico dello stesso premier, che magnificando l’Italicum dice che consentirebbe di conoscere il nome del premier ‘la sera delle elezioni’), e si riferisce a quelle modifiche dell’assetto costituzionale intervenute tramite convenzione che vogliono che il premier sia il capo della coalizione che si presenta alle urne e vince. Il Renzi prima di #Enricostaisereno ripeteva spesso di voler diventare premier così.
3. Le riforme costituzionali sono materia parlamentare: il governo, rispetto alle riforme costituzionali, di solito deve avere un contegno ‘sobrio’, stare un passo indietro. Qui invece un governo così debole sul piano della legittimazione politica ‘costituente’ ha condotto tutto l’iter delle riforme, e ha persino legato la propria permanenza in carica all’esito del referendum, anzi legandovi la carriera politica personale del Premier.