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Cuba dopo Fidel, ovvero: l’insostenibile peso dell’eternità

Fidel rumbo a la eternidad”, Fidel verso l’eternità, titolava sabato scorso il Granma, annunciando l’ultima tappa del viaggio che in quattro giorni – ripercorrendo a ritroso quello che, nel gennaio del 1959, era stato il percorso della “caravana de la libertad” – ha infine portato le ceneri del “comandante en jefe” dall’Avana a Santiago de Cuba. E non v’è dubbio che proprio l’eternità sia stata, in piena sintonia con la personalità e la filosofia del defunto, la vera ed incontrastata protagonista del lungo addio cominciato mercoledì scorso nella Plaza de la Revolución, ed infine conclusosi, ieri mattina, nel cimitero di Santa Ifigenia, dove i resti mortali del “líder máximo” sono stati, come dal medesimo ordinato, sepolti accanto alla monumentale tomba dell’ “Apostolo” José Martí.

La “eternità” in questione non è ovviamente soltanto, né è tanto, quella – intrinseca ad ogni umana esistenza – dell’ “eterno riposo”, quanto quella, molto più specifica, che lo stesso Fidel Castro e la molto inamidata liturgia del castrismo sempre hanno considerato un’essenziale, irrinunciabile e molto terrena parte del proprio essere. Tutto, nel Fidel visto da Fidel, è stato infatti “eterno”. E sabato notte, nell’ultima oceanica cerimonia celebrata nella Plaza Mayor Antonio Maceo di Santiago, questa molto fidelista forma d’eternità è di nuovo piovuta dal palco degli oratori sulla folla, implacabile e tediosamente identica a se stessa, slogan dopo slogan, cliché dopo cliché. Fidel “el guerrillero eterno”, Fidel “el eterno rebelde”, Fidel “el eterno heroe de los desposeidos”, Fidel l’immortale perché immortale è il popolo che in lui s’identifica…

Non poteva, del resto, essere che così. Nel corso dell’ultimo mezzo secolo e passa, nella Cuba dell’eterno Fidel tutte le imbarcazioni, anche quelle più miseramente affondate, hanno immancabilmente navigato nel mare dell’eternità. Eterna era stata – e come tale fu sancita dalla Costituzione del 1976 – l’amicizia con l’Unione Sovietica. E tale questa amicizia è rimasta anche quando – crollato sotto il proprio peso l’oggetto di quell’imperituro ossequio – l’articolo costituzionale è stato discretamente cancellato dalla Carta Magna. Eterno (o più precisamente “irrevocabile”, come recita un articolo introdotto nella Costituzione nel 2002, in risposta al proyecto Varela) è anche il socialismo cubano. O meglio: quell’unica combinazione di monarchia assoluta, nazionalismo caudillista con vocazione sociale, militarismo e socialismo reale, che dopo il trionfo del 1959 si cementò nel culto della personalità del grande nonché “eterno” leader, ed in una molto poco fantasiosa replica della ortodossia “marxista-leninista”.

L’eternità (questa eternità “marxista-leninista”) è stata in effetti (fin dall’inizio, quando Fidel entrò all’Avana giurando di non essere in alcun modo interessato al potere) il vero motore del totalitarismo castrista, l’abito che meglio è andato attagliandosi alle ambizioni caudilliste del comandante en jefe, al suo smisurato ego – un ego che, di per sé, non accettava controparti – e ad una sua idea fissa. L’allora ancora in fieri “líder máximo” era infatti convinto – lungo linee di pensiero molto più prossime all’eroica visione della Storia di Thomas Carlyle che al materialismo marxista – che solo il suo potere assoluto, il potere del “grande uomo” di Carlyle, per l’appunto, potesse fare da contraltare alla prepotenza neocoloniale del “grande vicino del nord”.

Fidel Castro – e qui sta la sua indubbia grandezza – ha vinto, contro venti e maree, la sua battaglia contro lo zio Sam. L’ha vinta sacrificando come agnelli sull’altare del suo proprio culto, una dopo l’altra – in un processo di reductio ad unum analogo a quello d’ogni esperienza di socialismo reale – tutte le diversità che avevano caratterizzato la lotta contro la dittatura batistiana. Ed una volta vinto ha poi congelato la sua vittoria nell’eternità, o meglio nel rigor mortis d’un regime che era a tutti gli effetti, nella sua ibernata immobilità, il contrario d’una rivoluzione. Si sente spesso ripetere – e l’argomentazione ha indiscutibilmente una solida base di verità – che il summenzionato regime non avrebbe potuto resistere per oltre sessant’anni, sotto il naso della più grande e aggressiva potenza del pianeta, senza un ampio consenso popolare. Resta però l’inquestionabile fatto che – esauritasi già alla metà degli anni 60 la spinta genuinamente trasformatrice della rivoluzione – la capacità di resistenza della Cuba castrista si è basata, fondamentalmente, su tre pilastri che non creavano ma imponevano consenso. O, più esattamente: che imponevano, nella realtà d’uno stato di polizia, un consenso verso qualcosa di immutabile perché istituzionalmente “eterno”. E come tale senza alternative. Questi tre pilastri sono stati (e sono): il culto di Fidel, della sua onnipresenza (almeno fino a quando la salute glielo ha consentito) e della sua onniscienza, il partito comunista (ovvero, quella che la Costituzione definisce “la forza superiore di direzione della società e dello Stato”) e le istituzioni armate (esercito, polizia, servizi di sicurezza).

Oggi Fidel se ne è andato. I tre pilastri – gli stessi che hanno consentito al regime di sopravvivere, senza alcun sostanziale cambio, al crollo del sistema sovietico che l’alimentava – restano in piedi. E con loro – volendo parafrasare il titolo del più celebre romanzo di Milan Kundera, resta, con tutta la sua insostenibile ed ibernante pesantezza, la logica della eternità castrista. Liberarsi di questa gabbia di ghiaccio – una gabbia piena orma soltanto della più ammuffita retorica – e ricominciare a camminare nella Storia è, al di là dei destini dell’embargo e delle relazioni con gli Usa di Donald Trump, la prima vera e difficilissima sfida del dopo-Fidel.