Matteo Renzi si è dimesso con un discorso più dignitoso, e ci voleva poco, della campagna ignobile che ha consumato a danno degli italiani e della Costituzione, biecamente strumentalizzata per ottenere l’agognata investitura plebiscitaria che il paese gli ha negato. E l’ha fatto con una partecipazione straordinaria e con un risultato talmente netto da non consentire scappatoie o ennesime manipolazioni della verità post-voto.
Come ha scritto in assoluta solitudine Marco Travaglio nessun controllore o “cane da guardia della democrazia” ha contrastato e nemmeno disturbato una campagna governativa condotta “nella violazione di tutte le regole, anche quelle della decenza”. E la riprova di come il direttore del Fatto Quotidiano abbia toccato un nervo scoperto l’abbiamo avuta in tarda notte durante il collegamento con la maratona di Mentana quando la sua incontrovertibile osservazione sulla incapacità colposa e/o dolosa dell’informazione di vedere, comprendere e raccontare la realtà dalla Brexit a Trump fino all’avventura referendaria di Renzi ha gettato in un cupo disappunto e/o in un malcelato e infastidito sconforto tutti i presenti che hanno cercato di sorvolare o di obiettare in modo inadeguato e specioso.
Forse è vero quello che ha scritto Carlo Tecce e cioè “l’errore più grave della politica italiana non l’ha commesso Matteo Renzi ma l’ha commesso il giornalismo: l’abbiamo sovrastimato“.
Ed è anche questa “sovrastima” generalizzata, non si sa o si può immaginare quanto dettata da un abbaglio, dal distacco dalla realtà o dalla convenienza, che ha fatto temere più del dovuto chi si era impegnato fin dall’inizio con la battaglia per il No in una sfida che sembrava impossibile. Gli ultimi 15 giorni, segnati dall’offensiva concertata del premier a reti unificate, dalle cassette postali ostruite dai depliant, dai fac-simile farlocchi di schede elettorali fantasma, dalle assillanti campagne clientelari al Sud “con gli scarponi al suolo”, dai “pensierini” di Natale disseminati nella legge di Bilancio, ci avevano indotto a credere che la rimonta del Sì sarebbe stata formidabile e forse incontenibile.
Se come come aveva ricordato con pungente ironia Matteo Renzi, in versione di premier anticasta, l'”abuso di credulità popolare” di cui era stato accusato dal garante del M5S quando aveva mostrato l’incredibile scheda elettorale del Senato che rimarrà nell’aneddotica delle bufale del Palazzo non è più perseguibile penalmente, i cittadini elettori hanno stabilito con quasi 19 milioni di No che politicamente la sanzione può essere molto cara.
Il corpo elettorale ha dimostrato molto più di quanto avevamo previsto o potevamo sperare un’autonomia decisionale che non ha subito gli effetti di una pressione mediatica spropositata, di ingerenze internazionali interessate e spesso indotte mai viste prima, di una propaganda governativa talmente sbracata da risultare arrogante e fastidiosa oltre la soglia della normale tollerabilità.
Ora a distanza di poco più di 36 ore dal risultato che avrebbe dovuto determinare l’Apocalisse finanziaria per “un salto nel buio” che nessuno ci avrebbe perdonato non si è verificato alcun terremoto. Il rischio più concreto che corriamo con un presidente del Consiglio, a cui Sergio Mattarella ha congelato le dimissioni per ancorarlo alle sue responsabilità istituzionali, ben determinato a giocare la sua partita per riprendere il potere forte di quello che ritiene il suo 40%, è quello di non avere una data per il voto ragionevolmente ravvicinata e di vedere l’Italicum sostituito una legge elettorale il cui unico pregio sia danneggiare il M5S.