L'INTERVISTA - Appena ventisette anni e sei film da regista, uno più importante, stimolante e apprezzato dell’altro. L'ultimo è in il 7 dicembre con il titolo È solo la fine del mondo. "I film non mi ispirano in modo particolare. Sono invece un grande amante dei libri fotografici e della pittura. Ogni volta che su un libro trovo una foto che m’ispira la acquisto sapendo che un giorno mi tornerà utile” dice il giovane e acclamato regista canadese
Appena ventisette anni e sei film da regista, uno più importante, stimolante e apprezzato dell’altro. Il fenomeno Xavier Dolan con È solo la fine del mondo (Juste la fine du monde) – nelle sale italiane dal 7 dicembre distribuito da Lucky Red – conferma la sua parabola ascendente nel proporre un cinema a tutto tondo che incanta esteticamente e sconvolge per ogni risvolto di scrittura. La storia di È solo la fine del mondo è quella di Louis, uno scrittore teatrale (Gaspard Ulliel), che torna a casa per un giorno a ritrovare i suoi cari. Ad attenderlo, con malcelata trepidazione, ci sono la madre (Nathalie Baye), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), il fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel) e la cognata Catherine (Marion Cotillard). Il protagonista non fa ritorno nel paesino natale canadese, immerso in un caldo terribile, da ben dodici anni. L’improvvisa U-turn, dettata da un dettaglio che promettiamo di non rivelare, ma che è letteralmente dirompente sia per il futuro del protagonista che, se venisse mai svelata, per tutti i parenti convenuti, manda parecchio su di giri i familiari, immersi nelle loro idiosincrasie e rimossi, scaricati in violenta caduta libera su Louis. Abbiamo intervistato Xavier Dolan per spiegarci questo film e la sua idea totalizzante di cinema.
Ai tempi di Michelangelo Antonioni si parlava di cinema dell’incomunicabilità: è la stessa cosa che accade per i personaggi di È solo la fine del mondo? E soprattutto rispetto al protagonista Louis, nella società occidentale del 2016 è ancora difficile fare “coming out”?
“Penso che sia realmente una questione di incomunicabilità e incompatibilità. I personaggi del mio film non si capiscono, non si ascoltano, non riescono a esprimere le loro differenze. C’è quindi una grande distanza tra loro, una tristezza più vasta che li separa più che unirli. È altrettanto complesso per Louis fare coming-out soprattutto verso se stesso. Tutto dipende dal mondo in cui ogni persona vive. Talvolta, tra una città e l’altra, con poche centinaia di metri di distanza geografica, c’è comunque una distanza culturale di centinaia di anni. Sia in Europa che negli Stati Uniti vedo una recrudescenza dell’omofobia e del razzismo. C’è da chiedersi se di fondo, la nostra società si è veramente evoluta, o se in questi ultimi anni ci è stata raccontata una bugia”.
In È solo la fine… come in Mommy e in altri suoi film si mostra l’incombente presenza della figura materna, ma non si parla mai dell’assenza di un padre, se non nella caratterizzazione di qualche violento fratello maggiore. È una questione biografica personale oppure metaforica della nostra società?
“Avete ragione. L’assenza del padre è ricorrente nei miei film. Morti, assenti, partiti, o se presenti molto evasivi, irresponsabili, fastidiosi. Non ho mai avuto istintivamente la voglia di parlare dei padri. Ma ho sempre avuto lo stimolo di parlare di donne, di madri. Sono figure che m’ispirano di più, che sento più vicine. Le figure maschili, soprattutto paterne, sono più difficile da decifrare per me”.
È solo la fine del mondo è girato in pellicola. Una scelta tecnica e culturale radicale e precisa: può spiegarcene il valore?
“Per me ‘girare’ un film materialmente su pellicola è essenziale. È l’anima del film stesso. Non dico che girare in digitale non possieda un’anima, ma per me la pellicola è come un cuore che batte, è la vita che sfonda lo schermo e pulsa. C’è qualcosa di chimico, direi di biologico con il 35mm. Si possono controllare meglio luci e colore. Poi chiaro che in questa scelta c’è comunque un coefficiente di imprevedibilità. Nel guardare i risultati del filmare spesso diciamo: “Strano, non pensavo venisse così”. Perché non osserviamo l’appiattimento di un’immagine filmata, ma guardiamo la vita della gente catturata a loro insaputa. Il film abolisce la frontiera del cinema mettendo vita e un senso alla natura delle cose”.
Lei si ispira in modo particolare a qualche regista o drammaturgo? C’è prima il testo è un’idea più globale di regia nel preparare i suoi film?
“I film non mi ispirano in modo particolare. Sono invece un grande amante dei libri fotografici e della pittura. Ogni volta che su un libro trovo una foto che m’ispira la acquisto sapendo che un giorno mi tornerà utile. A casa possiedo centinaia di libri di foto. Hanno un loro universo e stile, ma contengono tutti questa virtù un po’ nostalgica, imperfetta e grezza. Ogni immagine fotografica è fonte d’ispirazione per me: talvolta nella sua totalità, altre volte per un piccolissimo dettaglio, un vestito, la postura di un soggetto, una luce, uno sguardo. Nei miei primi due film ho imitato molte opere fotografiche di autori che ammiro profondamente. Nel tempo, poi, ho sentito il bisogno di ispirarmi anche da testi letterari e dalla musica, ma ancora non dai film. È una forma d’ispirazione più efficace che stimola l’immaginario. Con la fotografia, la pittura, la letteratura, un mondo ci separa ancora dal cinema e ci spinge ad iniziare un viaggio da questa idea estemporanea allo schermo. Possiamo partire da una moltitudine di direzioni insospettate e a stimolarmi non è che una frazione di secondo”.
Nel suo prossimo film – The death and life of John Donovan – avete lavorato con star hollywoodiane di tutto rispetto – Jessica Chastain, Susan Sarandon, Natalie Portman – ma la produzione è canadese. Nel suo futuro vede invece dei progetti pienamente a produzione hollywoodiana? E soprattutto cosa significa per la sua carriera di cineasta Hollwyood oggi?
“Ci sono sì dei progetti hollywoodiani all’orizzonte, ma che significa esattamente hollywoodiano? Quando li scrivo e li giro non riesco a concepire i miei film in termini di industria o destinazione finale. Per me girare un film a Hollywood non è una scelta parossistica in sé. La domanda è piuttosto: lavorare come, con chi, e su quale storia. Non riesco ad immaginarmi regista ad Hollywood per pura ambizione, come non fatico a pensare che ci si improvvisi da un giorno all’altro, che so, attrici perché si è delle top model. Lo statuto di una professione si ottiene meritandoselo e lavorando alacremente. Per me poi, l’aspetto cruciale è avere un obiettivo e una convinzione. L’obiettivo è lavorare con attori che mi ispirino, mi impressionino e mi facciano crescere. La convinzione è quella di fare film di cui essere fiero, e che siano sempre fatti per essere migliori dei miei precedenti”.