L’esito del referendum costituzionale certifica una profonda frattura sociale. Da un lato, una parte minoritaria di paese con lavoro stabile (o una buona pensione) e piuttosto avanti con l’età, convinta (a torto o a ragione) di avere un futuro abbastanza solido davanti nonostante il declino continuo del paese. Dall’altra, una ormai maggioritaria, più povera, precaria, disoccupata e giovane – che ha palesato nel NO tutta la propria frustrazione. Una parte d’Italia che un paio di anni fa avevo definito “La Maggioranza invisibile“. Una maggioranza divisa da appartenenze politiche diverse e alla quale non sarà facile offrire un progetto alternativo di paese. Una maggioranza con la quale tuttavia la politica mainstream deve fare i conti.
Come illustrato da un’analisi dell’Istituto Cattaneo basata su Bologna, i democratici hanno ricevuto maggiori consensi nelle zone più ricche e tra le fasce d’età più alte, perdendo (ancora) voti nelle periferie, tra le fasce di reddito più basse, tra i giovani e nel meridione. Niente di nuovo sotto il sole. Si tratta di una dinamica simile a quella delle elezioni politiche del 2013 e le amministrative di giugno. D’altronde, perché un giovane calabrese o un romano di Corviale dovrebbe votare per un governo che ha reso ancora più precario il mercato del lavoro? E perché un disoccupato di Catanzaro dovrebbe votare per un partito che, pur avendo la maggioranza in parlamento, non ha voluto creare un programma strutturale come il reddito minimo garantito?
La frattura sociale amplificata da molti anni di crisi e dalle politiche di austerità ha trovato modo di sfogarsi col referendum. Il Movimento 5 Stelle continua a raccogliere ampi consensi da questa parte d’Italia, ma il suo percorso d’istituzionalizzazione e le sue ambiguità lasciano ampi dubbi sulla sua reale spinta innovatrice. Il tempo ci dirà quale sarà il suo ruolo nel proporre una visione alternativa a quella del Pd — architrave di un sistema sociale e politico sempre più instabile.
Per creare una nuova forza progressista, non servono grandi interviste sui quotidiani nazionali da parte di personaggi in cerca d’autore (mi riferisco all’intervista di Pisapia pubblicata su Repubblica), o progetti nati morti in partenza come quello di Sinistra italiana, ma ripartire dal senso comune della maggioranza invisibile. Da quel buon senso che sviluppa chi ogni giorno deve lottare per garantirsi un reddito e dare un’esistenza dignitosa ai propri figli. E’ necessario riavvicinare il cittadino alle istituzioni e dargli la centralità che merita tenendo presente che la società civile non è fatta solo da Farinetti e Carrai – rappresentanti degli interessi di una piccola (ma potente) minoranza.
La società civile è anche giovane, disoccupata, cassaintegrata, precaria, povera, frustrata, delusa e arrabbiata. E’ forse questo il messaggio più potente del No al referendum, quello che la classe politica nella sua interezza dovrebbe portare a casa, prima di mettere cappelli e recitare orpelli sul voto di quasi 19,5 milioni di cittadini.
Nota per i viandanti: molti analisti hanno paragonato il voto sul referendum a quello su Brexit e Trump. Se è vero che queste tre consultazioni rappresentano un voto anti establishment, è errato affermare che le vittorie provengono dallo stesso bacino elettorale. E’ stato un voto generazionale che nel Regno Unito e negli Usa ha unito gli anziani impauriti, mentre in Italia è stato l’81 per cento dei giovani a bocciare la riforma. Dati su cui riflettere.