“Quando sono nato alla Casa Bianca c’era Woodrow Wilson. Ho visto sedici presidenti, due guerre mondiali, la Grande depressione e una sfilza di crisi politiche, dallo scandalo di Teapot Dome al Watergate all’impeachment di Bill Clinton per essersi fatto un servizietto alla Casa Bianca”. Il “Novecento” americano è racchiuso in una delle sue star più grandi hollywoodiane, quel Kirk Douglas che il 9 dicembre 2016 compie 100 anni. Prima di lui solo un’altra grande star del cinema come Olivia De Havilland, la Melania di Via col vento, aveva doppiato la boa del secolo, il 1 luglio 2016. Da ciò che scrivono i tabloid statunitensi, Douglas festeggerà il suo compleanno assieme ai figli Michael, Joel e Peter, alla moglie Anna Buydens, e ai sette nipoti durante un tea party in una sala per le feste di Beverly Hills dove ci saranno anche Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg, e Don Rickles. Il suo medico ha anche detto che Kirk potrà fare uno strappo alla regole e bere un bicchierino di vodka, la sua bevanda alcolica preferita.
Nato Issur Danielovitch, figlio di un immigrato ebreo russo analfabeta che per sopravvivere ad Amsterdam, nello stato di New York, vendeva stracci, Kirk Douglas inizia a recitare mentre studia alla St Lawrence University, poi a metà anni trenta si trasferisce a New York recitando all’American Academy of Dramatic Arts, dove incontra e prende una cotta per Betty Perske, in seguito nota come Lauren Bacall. L’esordio ad Hollywood però deve aspettare. Douglas serve il suo paese nella Marina degli Stati Uniti, e intanto nel ‘43 sposa Diana Dill, amica della Bacall, e ha subito due figli: Michael nel 1944, e Joel nel ’47 prima di divorziare nel ’51. Nel 1946 ottiene il suo primo ruolo importante a Los Angeles di fianco a Barbara Stanwyck ne Lo strano amore di Marta Ivers e in nemmeno tre anni, interpretando noir e drammi diventa una star. Nel 1949 con Champion, una pellicola diretta da Mark Robson per la RKO e girata in venti giorni, è il pugile Michael Midge Kelly, talmente tanto convincente coi guantoni da ricevere la prima nomination agli Oscar, che peraltro mai vincerà se non in un’indimenticabile notte del 1996 quando ricevette quello alla carriera di fronte alle lacrime del figlio Michael e di Robin Williams.
Nel 1953 è di nuovo “nominato” per Il bruto e la bella di Vincente Minnelli e nel 1957 per Lust for Life (Brama di vivere) diretto ancora da Minnelli dove interpreta un austero e folle Vincent Van Gogh. Inimitabile con quella sua fossetta sul mento, gli occhi saettanti e il viso aguzzo, ma anche in possesso di un fisico atletico e asciutto, spalle larghe ed enormi un po’ all’antica che gli consentiranno numerose parti d’azione e d’avventura come quelle dell’Ulisse di Mario Camerini (1954, con gli italiani De Laurentiis e Ponti alla produzione), de I Vichinghi (1958) – con Douglas a cercare informazioni storiche più realistiche possibili sul periodo grazie ad un lungo viaggio in Scandinavia – e di Spartacus (1960). La parentesi con Stanley Kubrick merita qualche parola in più rispetto agli western con John Wayne e al sodalizio con Burt Lancaster con cui gira l’ottimo Sfida all’OK Corrall nel 1957 interpretando la spalla dello sceriffo Earp, Doc Holliday, e poi uno degli ultimi film della carriera, Due tipi incorreggibili nel 1986.
Douglas aveva conosciuto Kubrick dopo aver visto al cinema Rapina a mano armata. Si incontrano, si parlano, Stanley dice che ha pronta una sceneggiatura antimilitarista intitolata Orizzonti di gloria e Kirk ne rimane affascinato. “Stanley, non credo che questo film potrà mai guadagnare un soldo, ma noi dobbiamo farlo”, scrisse Douglas nella sua biografia tradotta in italiano per Rizzoli, Il figlio del venditore di stracci. L’attore convince la United Artists a finanziare il film che si girerà in Germania. Douglas raggiunge mesi dopo la preparazione del set in Europa e scopre che lo script è stato cambiato a sua insaputa con una versione piuttosto idiota che cancella l’afflato storico-politico. Ad usare un eufemismo: si arrabbia. E dice a Kubrick di riprendere in mano la vecchia versione altrimenti sono dolori. Kubrick esegue gli ordini di altri, come mai accadrà nel resto della sua futura carriera. E Douglas si farà riprendere con quelle celebri carrellate nella trincea della prima guerra mondiale per anticipare l’incedere deciso del suo colonnello Dax. Per Spartacus è ancora Douglas a chiamare Kubrick alla regia dopo il licenziamento di Anthony Mann. Ed è qui che si aggiunge un altro aspetto dalla vita dell’attore oggi centenario. Sincero e fervente democratico, fa lavorare Dalton Trumbo, uno dei dieci finiti sulla “lista nera” anticomunista, facendogli scrivere la sceneggiatura e pagandolo con i dollari della sua piccola casa di produzione Bryna, appena nata, oltretutto su un personaggio come Spartaco, schiavo ribelle che capeggia una violenta rivolta contro la Repubblica romana. I contraccolpi politici dell’ancora recalcitrante e reazionaria Hollywood sono raccontati nel bel libro Io sono Spartaco (IlSaggiatore).
Paradossalmente dopo il successo di Spartacus, ad eccezione del film fantapolitico Sette giorni a maggio (1964), Gli eroi di Telemark (1965) e Uomini e Cobra (1970), per Douglas inizia un graduale ma mai, a dire il vero, infamante declino. Nel 1969 per l’ex “spione” maccartista Elia Kazan, da Douglas chiamato “GADG”, interpreta un pubblicitario in crisi in The arrangement. Ma Hollywood non è più la stessa. Gli studios sono in trasformazione e si sta affermando la figura del regista autore, con un controllo maggiore sulla produzione. Gli anni settanta vedono così Douglas interpretare titoli minori tra cui un paio in trasferta italiana con Michele Lupo nel notevole Un uomo da rispettare, e con Alberto De Martino nel thriller apocalittico piuttosto sballato Holocaust 2000. Nel 1978 l’ultima vera zampata del vecchio leone è in Fury di Brian De Palma. Autentica fiammata performativa di un sessantaduenne che non avrebbe più nulla da chiedere al cinema, ma che omaggia l’esigente De Palma affiancando una ragazzina con poteri paranormali nella ricerca di suo figlio rapito. Alcuni esterni girati nella località di Caesarea in Israele ci permettono in ultimo di ricordare l’avvicinamento tra gli anni settanta e ottanta di Douglas alla religione e al popolo ebraico. Il viaggio e la preghiera al muro del pianto, l’elogio di Ben Gurion, la franchezza con cui la memoria torna sul grande tema dell’Olocausto e la visita indignata a Dachau, Douglas diventa parte integrante della comunità ebraica di Hollywood tanto da aver paragonato pochi mesi fa Donald Trump a Hitler, e aver scritto più volte di politica e fede nel blog che ha cominciato a tenere parecchi anni fa sull’Huffington Post.